UN PONTE SULLO STRETTO, E OLTRE LA CRISI
Il collegamento fisico potrebbe costituire per la Sicilia una compensazione dell'essere stata per ben due volte esclusa da alcuni dei più importanti successi ottenuti dall’Italia unita.
Di rado, nel gran mare dei discorsi sulla sfida economica determinata dalla pandemia, si è giunti così vicini al cuore del problema, e in maniera così essenziale e sintetica, quanto nell’affermazione che, in Italia, “per il Recovery Fund abbiamo bisogno della stessa tensione attuativa che abbiamo avuto per il Ponte di Genova”. Nessun Italiano potrebbe ragionevolmente dirsi in disaccordo, tanto più in quanto si tratta di parole che vengono da un “nostro uomo a Bruxelles”, da Marco Buti, Capo Gabinetto del Commissario Italiano.
Questa “tensione attuativa” altro non è se non il concretarsi in azione della tanto spesso invocata, e tanto poco frequentemente riscontrata, “tensione morale” in assenza della quale difficilmente una comunità nazionale può sopravvivere a lungo negli agitati flutti della storia. E in essa consiste probabilmente ciò che gli Italiani si aspettano da un governo la cui guida è stata affidata a Mario Draghi. Perché è sulla base di tale parametro che essi hanno accolto con grandi aspettative il suo avvento a Palazzo Chigi, e sulla stessa base stanno probabilmente già valutando il suo operato, e quello della sua articolata compagine governativa.
Tra “tensione attuativa” e tensione morale
In un Paese in cui a volte sembra fatale che nulla si crei, nulla si distrugga, ma tutto si rimandi, è perciò comprensibile che molti – specie al Sud, ma non solo al Sud – siano rimasti un po’ con l’amaro in bocca nel constatare come, né nelle dichiarazioni rese dal Capo del Governo nel corso della Conferenza Stampa del 16 Aprile, né nei documenti resi pubblici per quella occasione, si sia fatto mai parola di un’opera per la quale è necessaria una grandissima “tensione attuativa”; una tensione comparabile a quella che il Paese si è dimostrato capace di esprimere quando si è trattato del Ponte Morandi. Né c’è stato, il 16 Aprile, un benché minimo accenno alle lentezze, agli intollerabili rinvii, e ai veri e propri tentativi di sabotaggio, con cui è stata sinora impedita la realizzazione di un’opera di ancor più grande momento di quella realizzata a Genova e – anche se in una prospettiva di più lungo periodo – di altrettanta urgenza: il Ponte sullo Stretto di Messina.
La delusione è stata indubbiamente gestita in maniera molto diplomatica. Ma come non ritenerla sacrosanta? E’ assai probabile, infatti, che dalla capacità di volere (o meno) e realizzare (o meno) questa straordinaria opera verrà misurata, da Bruxelles come dalle due grandi capitali del mondo contemporaneo, Pechino e Washington, la nostra “tensione attuativa” in tutti i campi. Cioè la nostra volontà di continuare ad esistere come comunità nazionale padrona del proprio destino nel difficile contesto mondiale che si prepara per gli anni a venire.
Eì più che probabile che qualcuno tenterà ancora una volta di sostenere che la realizzazione del Ponte sullo Stretto – quale esso è stato pensato e progettato, e non nelle fantasiose e irrealizzabili alternative inventate solo per osteggiarlo – è voluta principalmente da piccoli interessi locali in Calabria e in Sicilia, due regioni periferiche, ed anche mal viste, per le ragioni che tutti possono immaginare. Ma sono obiezioni e pretesti che non reggono ad un minimo di analisi condotta con onestà intellettuale. Tanto più che le due regioni che maggiormente ne trarranno più direttamente beneficio, la Calabria e la Sicilia, rappresentano più del 10% della popolazione della Repubblica Italiana.
La visione dalla Sicilia e quella dal continente
Non c’è infatti nessun dubbio che – quando verrà presa – si tratterà di una decisione di portata storica per la Sicilia, di cui troppi falsi amici sottolineano senza sosta più il carattere mediterraneo che quello italiano, astrologando su ridicole affinità e comunanza di interessi con i paesi musulmani delle sponde africana ed asiatica. Così come importantissimo il Ponte sarà per la Calabria, i cui abitanti vedranno drasticamente ridotta la “perifericità” che da sempre tanto li emargina e li danneggia; anzi otterranno i benefici di una sorta di “nuova centralità” tra l’Isola e la Penisola.
Ma dal Ponte sullo Stretto dipenderà anche in larga misura non solo il futuro a lungo termine, economico e identitario, di tutta l’Italia peninsulare,bensì anche la dimostrazione della nostra volontà e capacità di partecipazione culturale e produttivaall’Europa. Così come anche il nostro concreto e non solo simbolico ancoraggio al sistema politicomondiale, probabilmente ancor più politicamente ed comicamente squilibrato di quello odierno, che vedrà la luce quando le attuali crisi – quella pandemica, quella economica equella, non meno pericolosa, delle alleanze militari – avranno fatto tutto il proprio corso.
Del resto, anche nella prospettiva di chi, dalla Capitale d’Italia, cerca effettivamente di identificare e di promuovere l’interesse collettivo del Paese, la costruzione del Ponte sullo Stretto appare chiaramente come il progetto – l’unico tra quelli che l’Italia che guarda al futuro possa oggi concepire – in grado di conferire al Piano Nazionale di Ricostruzione e Resilienza il significato di un balzo coraggioso verso l’avvenire; un gesto politico e simbolico quale l’Italia non ha più compiuto nella sua storia recente, dopo il trasferimento della Capitale a Roma. Un messaggio e una dimostrazione di “tensione attuativa” quale nessun altro utilizzo del prestito garantito da Bruxelles potrebbe lanciare.
Il ponte va infatti visto come un segnale inviato a tutta l’Europa – e giustamente co-finanziato, anche se solo in parte, grazie alle istituzioni comunitarie – a proposito dell’ambizione dell’Italia ad un ruolo di primo piano nelle audaci trasformazioni che saranno necessarie nei prossimi anni. Esso non va perciò considerato soltanto come un’infrastruttura di trasporto la cui utilità possa essere misurata in termini di costi e benefici economici, insomma come un investimento da valutare per la sua “efficienza”. E ciò anche se i conti stanno lì ad obiettivamente provarne la convenienza economica.
Di fronte alle sfide che si profilano, come in una guerra – e nessuno, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ha mai ripetuto più che in quest’ultimo anno che ci troviamo in una guerra – in questo caso l’efficienza non importerebbe nemmeno, quello che conta è l’efficacia, l’ottenimento pieno del risultato. E il risultato da perseguire è la riaffermazione che la Sicilia e l’Italia peninsulare sono un’unica e identica cosa, parte di un’unica “democrazia occidentale con caratteristiche italiane”.
Una storica riparazione
E poi, vista nel quadro della storia d’Italia, cioè nella prospettiva del lungo periodo, la saldatura fisica tra l’isola e la Penisola potrebbe in definitiva costituire per la Sicilia una sorta di compensazione del fatto di essere stata per ben due volte esclusa, a iniziativa di potenze militarmente a noi ostili, da alcuni dei più importanti successi ottenuti dall’Italia unita.
Una prima volta, questa esclusione della Sicilia dal processo di costruzione dell’Italia moderna accadde ai primi dell’Ottocento, quando la flotta inglese, schierata a bloccare lo Stretto, impedì che il regno murattiano estendesse anche all’Isola il messaggio della rivoluzione francese, e la propria azione modernizzatrice e illuminata; una politica di cui il Mezzogiorno continentale beneficiò in maniera tanto irreversibile che gli stessi Borboni, una volta restaurati al potere dopo il 1815, ne dovettero conservare le riforme.
La società dell’isola venne invece mantenuta sotto il “poliziesco regime borbonico”, che lo stesso William Gladstone, ancora trentasei anni dopo la fine dell’avventura napoleonica, descriverà come un governo che “rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l’assoluta persecuzione delle virtù congiunta all’intelligenza, fatta a guisa da colpire intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura […], la sovversione di ogni idea morale e sociale eretta a sistema”, […] la negazione di Dio”.
La società siciliana ne subirà tali danni in termini di iniquità e di staticità, e di perdita di terreno rispetto ai progressi realizzati nel regno murattiano, che in definitiva furono gli Inglesi stessi – i più feroci nemici della Rivoluzione Francese e dei suoi principii – ad intervenire nel 1812 e nella persona di Lord Bentnick, per la concessione, contro la furibonda opposizione della Regina Carolina, di una Costituzione, che attenuasse la barbarie di un regime feudale immutato da ben sette secoli. Costituzione che il Borbone peraltro rinnegò appena quattro anni dopo, dopo la definitiva sconfitta di Napoleone e di Murat.
Le cicatrici di tanto fanatismo reazionario saranno visibili ancora all’indomani della spedizione dei Mille, e verranno riassunte nella celebre formula “cambiare tutto perché nulla cambi”, secondo la quale anche l’unità d’Italia fu un cambiamento che mascherò l’immutabilità delle relazioni sociali nell’isola. Se ne ebbe prova persino durante il Fascismo, quando la “nobiltà” siciliana, che vantava – e ancora oggi risibilmente vanta –di derivare i propri privilegi dal Sacro Romano Impero, ottenne che Vittorio Emanuele III facesse pressione su Mussolini per la rimozione dal suo incarico antimafia del celebre “prefetto di ferro”, Cesare Mori.
Una strana “liberazione”
Una seconda volta, questa forzata estraneazione della Sicilia rispetto ai progressi realizzati nell’Italia peninsulare si verificò negli anni quaranta dello scorso secolo. Dopo la sconfitta delle forze tedesche, nell’isola occupata dalle truppe alleate, gli Americani nominarono infatti sindaci di un grandissimo numero di comuni i boss mafiosi che apparivano in una lista compilata da Salvatore Lucania, detto Lucky Luciano, il famoso gangster siculo-americano inventore e capo dell’Anonima Assassini, che ammazzava praticamente chiunque contro pagamento di poche migliaia di dollari.
Luciano, infatti, condannato negli Stati Uniti a 60 anni di carcere, era stato liberato dopo aver spinto la malavita organizzata a collaborare con l’US Navy sul cosiddetto “fronte del porto”. Successivamente, anche se espulso dall’America, aveva comunque fornito alle forze sbarcate nell’isola una lista di 804 nomi di delinquenti, da cui emersero non solo molti Sindaci della Sicilia “postfascista”, ma anche la vera forza, quella formata di banditi armati, del separatismo siciliano. A cui l’Italia dell’antifascismo e della scelta Repubblicana dovette piegarsi
Fu così accettato, ancora prima che la Costituzione di tutti gli Italiani venisse discussa e scritta, che la Sicilia sarebbe stata una regione a Statuto Speciale, al cui governo regionale sarebbe spettata anche la cruciale competenza sulla Riforma Agraria. In pratica: la garanzia che nell’isola – come poi di fatto accadde – il potere dei latifondisti non sarebbe stato toccato, e che ai Siciliani sarebbe stato negato il beneficio di cui hanno goduto tutti gli altri italiani della diffusione – profondamente voluta dalla Democrazia Cristiana – della piccola proprietà coltivatrice nelle regioni meridionali del Paese. E venne quindi negato anche il beneficio della pacificazione civile che quella riforma portò in dono, nelle regioni del Mezzogiorno continentale, dopo anni di turbolente occupazioni di terre semi-incolte e di arroganti e volgari reazioni baronali.
Anche alla luce degli sconvolgimenti, forse profondi, che potrebbero accompagnare i prossimi sviluppi della crisi pandemica, impedire o sabotare la costruzione del Ponte sopra lo Stretto significherebbe infliggere, nel XXI secolo, un vulnus storico di gravità comparabile a quelli già inflitti alla Sicilia in ciascuno dei due secoli precedenti. E sarebbe difficile non pensare che questo diniego sia in qualche modo collegato ad una congiuntura europea in cui qualcuno, a Nord delle Alpi, guarda con occhi differenti alle diverse regioni d’Italia. A pensar male – come è stato detto – si potrebbe credere di veder giusto nell’ipotizzare che Paesi che non abbiano del tutto accettato l’idea dell’Italia unita vedano con una certa soddisfazione una Sicilia sempre più “mediterranea” e sempre meno italiana. E che ad essi siano in qualche modo collegati gruppi e pubblicazioni che pretendono di essere “di sinistra” e si fanno talora beoti portatori di questa visione.
Complementarità degli interventi PNRR e unità del Mezzogiorno
Ma è soprattutto all’interno della nostra società che un forte gesto di riaffermazione dell’unità tra la penisola e la sua isola maggiore avrebbe peso. Lo ha sottolineato in un recente e bel libro – Governare l’Italia – anche Enzo Scotti, che fu il non dimenticato primo Segretario del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. Senza una condivisione dell’impegno comune con la Sicilia, infatti, il Sud pesa assai poco, e l’azione meridionalista, già indebolita dalla riforma che cinquant’anni fa ha istituito le Regioni, perderebbe anche il nome di azione.
A merito di Draghi va pertanto riconosciuto e sottolineato il riconfermato impegno a portare una linea ferroviaria moderna sino a Reggio Calabria, un impegno che rende più logico il Ponte, ma che – reciprocamente – trova una sua piena logica economica soltanto nella previsione di un collegamento fisso tra l’Italia insulare e quella peninsulare.Senza la realizzazione del Ponte, l’estensione dei binari per l’alta velocità sino in Calabria e in Puglia sarebbe probabilmente solo l’ennesimo investimento pubblico poco o punto utilizzato. Finirebbe per essere un’altra “cattedrale nel deserto”, un (costoso e assai poco produttivo) “contentino” ad una parte del Paese la cui irrilevanza il “realista” Draghi era parso in qualche misura accettare al momento della composizione del suo attuale governo.
La lotta delle forze politiche meridionalistiche, e della parte migliore della classe intellettuale del Paese, non può tuttavia che risultare incoraggiata da un’altra decisione del governo guidato da Mario Draghi e riconfermata il 16 Febbraio: quella di aver incluso tra le opere cui dare immediatamente avvio, nel quadro del Recovery Fund, il collegamento ferroviario da Messina a Palermo via Catania. Si tratta di un’opera di apparente interesse locale e la cui attuazione si trascina da anni. Ma in realtà averla inserita nel PNRR implica una scelta di lungo periodo: perché si tratta di una nuova linea ferroviaria il cui tracciato dà per scontato che il ponte si farà, e porterà sull’isola i treni moderni e quelli del domani, che sono e saranno “non spezzabili”. Altrimenti sarebbero stati più razionali i collegamenti Catania-Messina, e il costosissimo Messina-Palermo, con separazione – a Messina, appunto – dei superati treni a vagoni giunti via mare, e diretti alle due diverse destinazioni.
Una implicita “tensione attuativa”
Nella inclusione della Catania-Palermo via Messina nel novero delle realizzazioni immediate è dunque implicita la scelta a favore del Ponte, con la cui costruzione tutta la spesa destinata alle ragioni meridionali potrebbe trovare coerenza e valore. Basta pensare che la quantità delle opere in acciaio da realizzare per superare lo Stretto eguaglia la produzione del siderurgico di Taranto per molti anni. Un grande e tecnicamente audace investimento verrebbe dunque ad esaltare la complementarità e l’unità di tutta la parte meridionale del nostro Paese, e dell’Italia nel suo insieme. Un risultato di grande momento, perché è questo, l’impegno per un Mezzogiorno considerato nel suo insiemenel quadro politico nazionale – quella “unità del Mezzogiorno” che il grande meridionalista liberale Francesco Compagna non smise mai di rivendicare – l’unico sentiero di riscossa per il Sud; per tutto il Sud, Sicilia compresa.
Naturalmente, i piccoli ma numerosi interessi, clientelari o peggio, che sono legati alla frammentazione regionale dell’Italia, creeranno un fronte di opposizione: contro la realizzazione di questa grande opera, e per la dispersione in una pioggia di piccole prebende delle risorse del Recovery Fund. Così come faranno anche gli interessi criminali, che solo nell’arretratezza del Sud possono prosperare, e solo lavori pubblici di scarsa o nulla complessità tecnologica possono far attribuire alle loro imprese operanti “nel pulito”.
E’ per questo che a tali miserevoli interessi sarà opportuno contrapporre una mobilitazione collettiva degli ambienti scientifici, universitari e culturali. Tanto più in quanto l’altra grande riforma che sarà indispensabile condurre nel Mezzogiorno– una riforma, si noti, quasi “senza spese” e per la quale non sarà perciò necessario chiedere né il sostegno né il permesso di Bruxelles – consiste in uno sforzo di accorpamento delle risorse umane più colte e creative, reso possibile da una digitalizzazione ad alto livello qualitativo di tutto il territorio meridionale e da una nuova diversa distribuzione territoriale, finalizzata a fare “massa critica”, dell’insegnamento universitario e delle attività di ricerca scientifica.
Per l’Italia che ha voglia di progredire, di superare l’arretratezza accumulata nel passato – tanto negli scorsi due secoli quanto, in termini e modi diversi, negli ultimi venti anni – la realizzazione del Ponte sullo Stretto può insomma essere un formidabile tema mobilitante, oltre che lo strumento di una profonda trasformazione del paesaggio fisico e politico del Sud. Così come la lotta per imporlo può essere l’occasione per dimostrare come, quando ci si batte, al di là delle diversità regionali, per un progetto economicamente più che giustificato e politicamente inoppugnabile, anche il Mezzogiorno è capace di muoversi in una stretta unità di intenti e sprigionare, così come è accaduto a Genova, una fortissima “tensione attuativa”.
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