Contro Pechino, Taiwan gioca la carta “culturale”
Taipei cerca di difendersi come può; rendendosi il più possibile indigesta e pericolosamente contagiosa per il colosso cinese
Il vento di una possibile guerra tra America e Cina è parso per un momento soffiare più forte e pericoloso del solito la scorsa settimana. E questo per aver Biden espresso esplicitamente quello che i diplomatici hanno sempre detto in maniera ambigua: che in caso di attacco di Pechino a Taipei, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti a difendere l’isola.
Non è bastato che, subito dopo, un comunicato della casa Bianca si sia premurato di raffreddare la tensione, precisando che le parole del Presidente non aggiungono nessun nuovo impegno a quelli già noti. Pechino infatti ha reagito in maniera assai aspra, e non si e curato di appesantire il clima, già turbato dal sorvolo dell’isola da parte di oltre 150 arei dell’APL, l’Esercito Popolare di Liberazione.
Una reazione dovuta a ragioni di politica interna alla nuova grande potenza comunista; ma una reazione comunque preoccupante. Perché Pechino non può non sapere che – se dispone di un certo spazio per affermare e rafforzare la propria presenza nel Mar Cinese meridionale, dove in alcuni dei casi in contestazione le sue pretese sono armate di buone ragioni – attaccare Taiwan è sarebbe un errore: anzi l’errore che non deve commettere. Se non vuole una guerra tanto più svantaggiosa in quanto il suo teatro – salvo escalation non convenzionale – sarebbe non i grandi spazi del Pacifico, ma un mare chiuso, immediatamente antistante i suoi porti.
Taiwan dal canto suo, sa di non avere i mezzi militari per difendersi dalla gigantesca gemella del continente, e tenta un’altra strategia: quella di trasformarsi in modo da essere un boccone particolarmente difficile da ingoiare per il potente vicino. Nulla è infatti più contraddittorio della politica “culturale” delle due Cine. Con Taipei che si trasforma a ritmi forzati secondo il modello occidentale del ventunesimo secolo, e Pechino che accentua ogni giorno di più le “caratteristiche cinesi” del proprio “socialismo”.
La piccola Cina di Taipei, si è così data – sul piano istituzionale – un sistema multipartitico pienamente funzionante, cui si aggiungono aspetti di democrazia diretta, in particolare un uso sistematico del referendum che va anche al di là del modello svizzero. E ciò proprio mentre a Pechino si afferma una tendenza ad accrescere e forse a rendere permanente il potere personale di Xi Jinping. Inoltre, nell’isola il cambiamento radicale investe in pieno anche la società civile, nella quale pochi giorni fa il Parlamento ha introdotto – dando grande risalto all’avvenimento – persino il matrimonio omosessuale, che non esiste in nessun altro paese asiatico, neanche nei “paradisi” del turismo sessuale e dei lady boys, come la Thailandia. Una misura che, presentata come “un grande passo verso la vera eguaglianza”, in realtà, ferisce le fondamenta stesse e il vero punto di forza del mondo sinico: la famiglia tradizionale.
Così, mentre la Cina comunista, con una misura che in verità troverebbe non pochi consensi in molte famiglie europee, limita drasticamente il numero di ore che i bambini possono dedicare ai videogiochi, la piccola Cina occidentalizzate compie tutti i passi possibili per assomigliare all’America. Cerca cioè di difendersi come può; rendendosi, sia sotto il profilo del sistema politico che sotto quello dei costumi, il più possibile indigesta e pericolosamente contagiosa per il colosso che non ha sinora mai smesso di dichiarare la propria volontà di inghiottirla. Nella speranza, forse, di scoraggiarne l’appetito.
Leave a Reply