Scozia e “rUK”: disuniti contro l’Europa


Scozia e “rUK”: disuniti contro l’Europa

Che la stentata prevalenza dei “No” al referendum sull’indipendenza della Scozia non sia stata esattamente una grande vittoria è un fatto che i giornali non sono riusciti a mascherare. Anzi, il Regno Unito esce drammaticamente diminuito da questo tentativo di una parte delle sue popolazione di sfuggire al suo controllo. E che le conseguenze siano devastanti è una prospettiva tutt’altro che ipotetica. Basta vedere l’indifferenza dell’opinione pubblica  del cosiddetto “rUK” ( = rest or United Kingdom) al fatto che i vicini del Nord rifiutavano la britishness. “Ci vorranno decenni – ha detto il Conservatore Rory Stewart – a ricostruire la fiducia nell’esistenza di un’entità chiamata Britain, nel fatto che tutti insieme formiamo un Paese, che abbiamo valori condivisi, obiettivi e finalità comuni”.

E Stewart non è uno qualunque. Perché è un MP che viene eletto nel collegio di Penrith and the Borders; collegio inglese, ma immediatamente a ridosso del confine scozzese. Ed anche per questo Stewart si è dato molto da fare a favore del “No” organizzando “a cairn of auld acquaintance”, un evento  di solidarietà e fratellanza che avrebbe dovuto attirare un milione tra Inglesi e Scozzesi, ma alla quale si è riusciti a far convergere si e no cinquantamila persone. Così a una giornalista del Guardian che, immediatamente prima del voto, gli chiedeva se nel “rUK” a qualcuno importasse qualcosa che la Scozia continuasse a far parte del reame, Stewart ha risposto brutalmente “No…. In realtà, credo che negli ultimi trent’anni avremmo dovuto fare una battaglia per difendere l’idea di un modo di essere e di una entità britannica.”

Se si prova a fare un bilancio politico di tutta la vicenda, questa indifferenza dei non-scozzesi ne è forse l’aspetto più negativo dello stesso enorme numero di voti raccolti dai secessionisti. In contrasto con le passione dimostrata dalla gioventù scozzese per l’indipendenza, nel “rUK” è infatti apparsa un’assenza di ogni ispirazione etico-politica, un’abulia identitaria, un guardare solo alle questioni di interesse spicciolo ed immediato che ricorda un’altra pagina nera dell’UK nell’era di Cameron: la drammatica assenza di ogni motivazione sociale e politica ella violenta ed amorfa sommossa che aveva devastato il centro di Londra nell’estate del 2010, sommossa priva di ogni obiettivo che non fosse il saccheggio. Perché anche stavolta, come ha aggiunto il deputato Stewart, determinanti per elettori che hanno scelto il “No” sono stati gli argomenti di brutale convenienza economica, anziché quelli tendenti a sottolineare come, dopo più di trecento anni insieme, la Scozia ed il “rUK” avessero ormai un’anima sola.

Strategia del panico

Né d’altra parte, può essere considerato come un buon auspicio il fatto che l’establishment politico-finanziario-dinastico del Regno – l’unica cosa che ci sia di veramente british nel reame – abbia deciso, per scongiurare la vittoria del “Si” – di giocare le carte del  panico e del ricatto. “Sapevamo che sarebbe  arrivato un sondaggio che avrebbe dato il ‘Si’ in testa …. e che a quel punto avremmo dovuto riformulare la campagna”– è stata a cose fatte l’ambigua dichiarazione del capo della campagna laburista per il “No”, Douglas Alexander. Ed infatti, nel weekend del 6 e 7 settembre, non Rupert Murdoch aveva fatto pubblicare sul suo Sunday Times i sondaggi – probabilmente gonfiati ad arte – fatti pubblicare da, e che davano la secessione come vincente, Cameron ha messo in moto una intensissima campagna per terrorizzare gli elettori scozzesi. E soprattutto si è precipitato al castello di Balmoral, in Scozia, per mettere in allarme la Regina. E poi, mentre offriva alla Scozia un più ampio margine di potere fiscale e di spesa, Downing Street è l’intervenuta sui “poteri forti” perché dichiarassero la loro reazione negativa in caso di vittoria del “Si”. Tutta l’artiglieria pesante del reame è stata chiamata a combattere. Così, dapprima sono scese in campo la Shell e la BP, che controllano le risorse perolifere scozzesi; poi le due principali banche della Scozia hanno fatto sapere avrebbero trasferito la loro sedi fuori dal nuovo Stato se questo avesse dichiarato l’indipendenza. “Non c’è stato lasciato nessun possibile dubbio sull’obbligo di intervenire”, ha dichiarato al Financial Times uno dei più noti managers del paese.

Di fatto la Scozia era di fronte a un vero proprio ricatto economico. Ma forse neanche ciò sarebbe bastato, se nel clima di panico così creato non fosse intervenuta anche la Regina, invitando gli Scozzesi a “pensarci bene”.

La questione inglese, e sovietica

Se la Scozia ha vissuto una stagione di forte febbre identitaria, neanche a Sud del Vallo di Adriano si bruciava di passione per la britishness. Al contrario, l’indipendentismo scozzese ha risvegliato tutti i localismi del “rUK”. e rafforzato il diffuso sentimento che l’Inghilterra sia overgoverned da Whitehall, ed abbia anch’essa diritto ad una devolution, come la Scozia e il Galles; per non parlare dell’Ulster dove, per porre termine a trent’anni di guerra civile, Londra ha di fatto dovuto accettare una sovranità in condominio con Dublino. E non si tratta solo di una questione identitaria. Gli Inglesi lamentano in particolare che il governo centrale spenda, per testa d’abitante, molto di più in Scozia che a casa loro. Una lagnanza simile a quella dei Russi al tempo dell’Unione Sovietica, quando c’era un netto trasferimento di ricchezza verso le Repubbliche non-russe; e che ha giocato un ruolo non indifferente nella dissoluzione del Paese.

Il problema è aggravato dal fatto che l’UK “non corrisponde a nessun modello classico di governo federale. L’Inghilterra è troppo preponderante per consentire una precisa redistribuzione del potere”, cosi come in Urss, dove la Russia era anch’essa “too preponderant” per una equilibrata ripartizione della funzioni di governo tra le diverse componenti del Paese.

E poi, quando accade che un desiderio di maggiore autonomia si manifesta anche nel “rUK”, e in particolare in Inghilterra – England in senso stretto –, sorge spontanea la domanda: autonomia  e separazione da chi? Nel caso dell’Inghilterra la risposta finisce per essere piuttosto singolare: della città di Londra, capitale di uno Stato accusato di essere troppo centralizzato e (vizio, questo, imperdonabile) addirittura “Napoleonico”.

Se gli Scozzesi potranno godere di una larghissima autonomia, perché mai gli inglesi dovrebbero accettare che le questioni di loro esclusivo interesse vengano decise ancora da Westminster,  dove votano anche i deputati scozzesi? Torna qui, ancora una volta, l’analogia con la Russia. Perché mai, si chiedevano i Russi, questioni di esclusivo interesse russo, venivano decise da un Partito, il PCUS, in cui erano rappresentate anche le altre nazionalità dell’Unione Sovietica, le quali avevano invece una propria organizzazione di Partito? Un interrogativo cui si è avuta risposta solo dopo la fine del potere del PCUS, con la frammentazione dell’Urss.

Azzoppare Westminster?

A questo interrogativo vengono proposte due risposte alternative: concedere un’effettiva autonomia anche all’Inghilterra, oppure ridurre il potere di voto dei deputati scozzesi alla Camera dei Comuni. Questi dovrebbero insomma uscire dalla aula, o  comunque non votare, quando vengono in discussione materie che concernono solo gli interessi dell’Inghilterra in senso stretto. Una diminutio di Westminster, che sarebbe praticamente azzoppato.

Eppure è proprio ciò che chiedono un gran numero di MPs inglesi, eccitati dalla vicinanza delle elezioni politiche del 2015. I Tories, in particolare, agitano lo slogan “voti inglesi per le leggi inglesi” sembrano sordi al fatto che ridurre gli MP Scozzesi (49 in tutto, ma 41 dei quali Laburisti, contro uno solo dei loro) a MP di seconda classe non serve ad allentare la mortale stretta di Whitehall sulle città e gli shires dell’Inghilterra”. E di fatto, essi stanno soltanto aprendo un vaso di Pandora i cui venti sconvolgerebbero in maniera irreparabile gli arcaici, asimmetrici e non scritti equilibri istituzionali del Regno. In realtà, –ha scritto il Financial Times – è impossibile identificare le questioni di puro interesse inglese, sicché l’esclusione dei deputati  scozzesi da gran parte dell’attività della Camera dei comuni “equivarrebbe  alla secessione dell’Inghilterra dal Regno Unito”.  In altri termini, “la Scozia potrebbe – aver perso una battaglia, ma il Regno Unito sta perdendo la guerra”.

I laburisti, dal canto loro, si oppongono a entrambe le scelte: la diminuzione del potere di voto dei deputati scozzesi a Westminster, la concessione dell’autonomia all’Inghilterra, soprattutto se essa prendesse la forma di un parlamento autonomo, di cui essi non si stancano di ripetere che sarebbe troppo costoso.

Anche in questo caso, però, sono le ragioni bottega a prevalere, perché i voti del Labour sono assai maldistribuiti sul territorio britannico. Un Parlamento per la sola Inghilterra sarebbe per loro difficilissimo da conquistare, e a Westmister un eventuale governo laburista verrebbe fortemente danneggiato da una diminuzione di status dei deputati scozzesi, e rischierebbe di poggiare su una maggioranza intermittente.

Essi perciò propongono un decentramento fondato non già sulla diversità delle quattro nazioni che di convivono oggi di malumore sotto l’anziana Regina. ma un altro tipo di spezzatino: una forte autonomia delle aree urbane, una sorta di città-stato destinate a rompere il giogo “napoleonico”. Una proposta assai debole, perché il Regno, da sempre retto senza lacerazioni né rivoluzioni da una feudale che risale a Guglielmo il bastardo, è lungi dall’avere la tradizione municipale che sarebbe necessaria per fondare tale sistema. Difficilmente perciò proposta municipalistica dei laburisti potrà dare risposta alla dissatisfaction che oggi domina il paesaggio politico della Gran Bretagna.

Un nuovo referendum ?

Già prima del 18 Settembre, questa dissatisfaction si era espressa, soprattutto nel “rUK”, attraverso il voto all’Ukip; che ha stravinto alle Europee, a costituisce il primo problema politico del reame. Alla forza montante di questo partito, che al Parlamento di Strasburgo ha ancora peggiorato la propria immagine convergendo con l’antieuropeismo dei grillini, Cameron aveva tentato di rispondere con la stessa medicina poi sperimentata in Scozia, un referendum sulla permanenza o meno del Regno nella UE.

Il voto scozzese ha pero dimostrato quanto sia pericolosa per lo stesso Cameron questo tipo di strategia. Al contrario di quanto si pensava, e cioè che un referendum popolare ed una vittoria del “No” – che veniva data per certa – avrebbero consentito di considerare definitivamente chiusa la questione, due fattori sono intervenuti a rendere meno certo che ciò sia avvenuto: da un lato lo scarto tra i si e i no, molto minore di quanto si dava per scontato, e dall’altro il fatto che, immediatamente dopo la vittoria del “No”, i tre partiti che si erano solennemente impegnati a attuare un decentramento ancora più forte a favore di Edimburgo hanno incominciato a litigare, e a rimangiarsi parte delle loro promesse.

Baruffe elettorali, ovviamente, ma che hanno permesso al leader degli indipendentisti scozzesi Alex Salmond, di dichiarare alla BBC’s, che si trattava di chiarissimi segni del disfacimento dell’accordo che era stato “messo insieme alla disperata negli ultimi giorni della campagna” per persuadere la gente a votare “No”. E che questa gente” che è stata portata fuori strada, ingannata, imbrogliata è quella che è adesso veramente furibonda”.

All’immediato indomani del referendum, insomma, la questione scozzese è tutt’altro che chiusa. Per di più, se grande maggioranza dei sudditi britannici erano sino a ieri dissatisfied, buona parte di essi è oggi addirittura “really angry”. E questa rabbia, che il risultato e i giochetti ad essi successivi non possono che avere accresciuto ed esteso,  rischia di ripercuotersi non solo sulle prossime elezioni politiche, tra poco più di sei mesi, ma soprattutto sul successivo referendum, dove non giocherà – come avviene nei collegi uninominali del sistema britannico – l’appeal personale dei candidati. E dove quindi la rabbia avrà libero sfogo.

Di fronte alla minaccia dell’Ukip, lo scialbo Premier cerca di offrire all’elettorato britannico – come fatto in extremis agli Scozzesi – una sorta di “premio” se voteranno contro il “Brexit”, che consisterebbe in una sostanziale riappropriazione da parte del Regno di tutte o quasi le (peraltro già esigue) competenze trasferite a Bruxelles. Una strategia piuttosto debole, ma in linea col personaggio che, pur essendo questa una grande questione di politica estera e di identità nazionale, aveva preso la decisione di tenere un referendum assai meschine. Si trattava infatti, per Cameron, di pura il semplice sopravvivenza, di fronte alla minaccia dell fatto che un terzo degli MPs (ed una metà della sua maggioranza), più o meno apertamente euro-scettici, erano una minaccia per il governo.

Con la promessa di indire un referendum, Cameron si proponeva di ottenere tre obiettivi: tenere calmi i ribelli all’interno del partito conservatore, cercare di bloccare la crescita dell’Ukip, e porre la questione dell’Europa nel dimenticatoio fino dopo le elezioni generali del 2015. La scadenza, perciò, é ormai pericolosamente vicina. E nessuno degli altri due obiettivi è stato ottenuto.

L’Europa ed il Brexit

Cameron sperava così di strappare all’Ukip quegli elettori che, pur dissatified della condizione attuale del Paese, sono tuttavia consapevoli dei vantaggi offerti al Regno Unito dalla partecipazione alla UE – in particolare la libera circolazione delle merci e di molti servizi – e si accontenterebbero di un rafforzamento del doppio binario sempre seguito da Londra. Da un lato, trarre dalla assai aggressiva presenza britannica a Bruxelles il massimo beneficio possibile. Dall’altro, minacciare sempre di rovesciare il tavolo se non si ottengono di volta in volta condizioni di assoluto favore, come finora concessole dalla facilmente addomesticabile fauna burocratica della UE.

La partecipazione britannica alla costruzione europea è del resto sempre stato ambigua e condizionata. Non si tratta solo del fatto che già quando si apprestavano i Trattati di Roma, Londra si diede invece da fare per costruire una organizzazione rivale, l’EFTA che, nelle sue speranze, era destinata a far fallire il progetto unitario. Né si tratta solo di quella specie di valse hésitation che ha accompagnato – dopo il breve periodo di esclusione imposto da De Gaulle – il lavorio finalizzato ad ostacolare dall’interno e rallentare lo sviluppo della CEE. né infine della prassi di opting out da molte delle politiche messe in comune.

Oggi l’ipotesi del Brexit pone all’Europa alcune questioni su cui i 27 dovranno decidere prima della eventuale uscita della Gran Bretagna, anzi addirittura prima del referendum. Se infatti Cameron non riuscirà a svincolarsi dal pericoloso ginepraio in cui si è infilato da solo, e a non tenere il referendum secco, egli certamente cercherà di applicare la stessa strategia già applicata in Scozia, quando si è profilata la vittoria del “Si”. Egli cercherà di aprire una trattativa offrendo un contentino ai sudditi della Regina perché votino “No” al Brexit.

Ma l’analogia tra i due referendums non regge oltre questo punto, e le sue offerte saranno in questa occasione assai meno credibili che non nel caso scozzese. In primo luogo, perché il legame sentimentale ed emotivo che poteva esserci in quel caso, la auld acquaintance”, non esiste per niente con l’Europa  E poi perché, mentre una ulteriore devolution di poteri verso Edimburgo dipendeva in definitiva solo da Londra, un recupero di competenze da Bruxelles necessita di una trattativa con la UE, che non sarà né tecnicamente facile, né abbastanza veloce. E non potrà esserlo perché la UE deve avere il consenso di 27 governi, e non può fare come Cameron che – come ha scritto la Reuters – ha tirato fuori dal cappello il coniglio dell’ulteriore decentramento verso Edimburgo senza neanche consultare il Parlamento.

Un diverso equilibrio nella UE 

Non che a Bruxelles manchino eurocrati pronti a far contenta Londra in cambio della sicurezza delle loro poltrone. Ed infatti c’é già chi sembra condividere le aspirazioni britanniche. Jean-Claude Juncker, in particolare, in nuovo Presidente della Commissione ha già indicato alcuni obiettivi destinati a essere accolti con grande favore oltre Manica: in primo luogo la formazione di un vero mercato unico dei capitali;e poi il completamento della libera circolazione dei servizi, la lotta al dumping fiscale per gli investimenti esteri e il benefit tourism. nonché – ovviamente – la creazione di un’area di libero scambio con gli Stati Uniti.

Si tratta di temi ultra-liberali piuttosto in contraddizione con l’economia sociale di mercato cui, anche se in una sua versione riveduta e corretta da Schroeder e dalla Merkel, la Germania rimane fedele. Ma ciò non costituirà un problema, perché nel quadro UE il rapporto tra Germania e Regno Unito è quanto mai ambiguo.

In una visione diffusa, ma fondamentalmente superata, Londra appare spesso come un contrappeso a Berlino. E si potrebbe quindi credere una vittoria dell’Ukip, o un referendum popolare, allontanando il Regno Unito, rafforzerebbe il predominio della Germania sullo spazio europeo. In realtà, i giochi sono più sottili, perché la Germania è sempre pronta a scambi di favori, specialmente per quel che non interessa la zona euro e non interferisce con  lo sviluppo del proprio spazio economico ad oriente. E poi perché gli uomini di Londra a Bruxelles creano esplicitamente un clima in cui gli interessi dei singoli Stati possono più facilmente prevalere a scapito di quello comunitario: e, con la copertura britannica, anche su materie in cui la Gran Bretagna non è coinvolta, diventa più facile per Berlino portare avanti i più meschini interessi nazionali, e dispiegare la propria egemonia di fatto in maniera che appaia quasi condivisa dal suo principale nemico storico, oggi ufficialmente partner, e quindi quasi legittima.

Più diplomazia, meno guerra

Su queste tematiche si tratterà evidentemente prima del voto, per via dell’estremo bisogno di Londra di portare a casa uno straccio di successo. Ma verosimilmente anche dopo, su al referendum il Brexit uscisse sconfitto. Al contrario, se Londra non fosse più nella UE, la linea Juncker sarebbe più debole ci sarebbe meno insistenza su questi temi. Soprattutto,  un tema che perderebbe forza se fosse ancora in discussione al momento del Brexit, é quello del trattato interatlantico libero commercio.

Più in generale, invece, risulterebbe meno difficile porre in comune politiche specifiche dato che l’Inghilterra si è sempre opposta alla questo tipo di operazioni e, quando esse sono state poste in essere, ha spesso scelto per la non partecipazione. Anzi, senza Londra tra i piedi, il che potrebbe significare anche l’uscita di entità minori come la Danimarca, lo stesso principio dell’opt out potrebbe essere messo in discussione.

Infine, una UR senza Londra dedicherebbe meno attenzione ai problemi della cosiddetta sicurezza, difesa comune e a vere o presunte minacce terroristiche. Ciò resterebbe, come è naturale che siano, di competenza Nato, cui partecipano sia la grande maggioranza dei paesi UE. sia quelli che non ne faranno più parte. Il che darebbe alla UE la possibilità di svolgere una sua azione internazionale, distinta da quella della NATO, e molto più pacifica. Un beneficio non da poco se si tien conto del fatto che la Nato, sempre alla ricerca di una guerra per non andare “out of business” è ormai diventata – come ha avuto il coraggio di sottolineare, solo tra i Capi del Governo, l’Italiano Matteo Renzi – un fattore di tensione e di instabilità internazionale.

 

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