Può farcela l’Italia ?
Un impegno oltre il 2013
La pessima qualità del personale politico italiano è – impossibile negarlo – la vera causa di tutti i problemi economici del nostro paese. Ed è chiaro che, se si fosse voluto evitare che il Parlamento che uscirà dalle prossime elezioni finisca per segnare una ulteriore – e a questo punto probabilmente irrimediabile – caduta qualitativa del dibattito politico in Italia, e quindi dell’intero sistema, la società italiana avrebbe dovuto esprimere, nella convulsa fase che ha segnato la fine della legislatura, almeno qualche nuova idea e qualche nuovo volto.
Ciò era indispensabile, ma non è accaduto; almeno per quel che riguarda le candidature. Al contrario, proprio l’insegna che più si presentava come portatrice del rinnovamento – quella che del Senatore Monti – ha finito per perdere tutti i nomi che avrebbero potuto qualificarla in tal senso, e per ridursi ad un’accozzaglia di rottami non riciclabili, come Gianfranco Fini, e di mezze figure, come Andrea Romano, provenienti e forse addirittura “prestati” da quello stesso PD con il quale la Lista pretesamente Civica ha finito per allearsi.
Resta ancora la possibilità di qualche idea nuova, offerta gratuitamente ad una classe politica tanto più chiusa in se stessa quanto più allarmata dalla possibilità che i suoi giorni siano contati. E se ciò non accadesse, se si continuasse coi redditometri, con le patrimoniali, con la fuga dai problemi come quelli dello sperpero dei partiti, della riorganizzazione del governo locale, della famiglia nelle sue forme nuove come in quelle tradizionali, dell’istruzione e dell’innovazione tecnologoca, della protezione dell’ambiente, è facile prevedere anni amari e drammatici per il nostro Paese.
E se aprirsi ad idee nuove, impresa già di per se assai ardua con questo personale politico, è indispensabile, cioò non può bastare. E’ chiaro infatti che il nuovo Parlamento non avrà solo il compito di sostenere un esecutivo che guidi l’Italia in una situazione mondiale difficilissima, e quindi di tradurre in leggi la linea di un governo che, andando ovviamente al di là dei compiti, anche assai dolorosi, affidati al Governo tecnico, dovrà saper passare dalle scelte tra interessi e gruppi sociali contrapposti, alla identificazione dell’interesse collettivo del Paese.
E l’interesse collettivo non è mai, e non può essere, nel caso dell’Italia come di qualsiasi altro paese, una somma algebrica – complessa e ponderata quanto si vuole – del dare e dell’avere dei diversi strati sociali, ma deve contemperare e promuovere i diritti e il benessere di tutti, imponendo a tutti limiti e sacrifici, con strategie che producano una somma finale superiore allo zero e positiva per tutti. E ciò tenendo ovviamente conto di vincoli europei ineludibili e stringenti, e che rischiano di incidere su temi assai delicati relativi al carattere profondo – meno sociale, o sociale in maniera più efficiente ? – dello Stato.
Nonostante il fallimento della “ascesa alla politica” del Senatore Monti, ed il mancato rinnovamento è tuttavia assai probabile che il Governo che nascerà dalle prossime elezioni assomigli più a quello tecnico che ha retto l’Italia nella prima metà del 2012, che non ai governi che lo hanno preceduto dopo la fine della prima Repubblica
I vincoli europei non sono però gli unici fattori internazionali che condizionano e vincolano le possibili scelte politiche del nostro paese. Al contrario, sono vincoli che una possibile crisi dell’Euro potrebbe indebolire fortemente, o addirittura sciogliere, mentre i condizionamenti derivanti dalla crisi globale, i cui protagonisti sono l’Asia e l’America, appaiono come sempre più pesanti.
Alla luce dei passi in avanti – in verità, più di principio che concreti, e purtuttavia non insignificanti – compiuti dell’Eurozona alla fine di Giugno, il sostegno al Governo Monti per consentirgli di andare, nei prossimi mesi, oltre la prima fase, pesantemente orientata all’uso prevalente dello strumento fiscale, rimane assolutamente necessario.
Esso non è però sufficiente a risolvere i problemi del Paese. E’ certo assai probabile che il Governo che nascerà dalle prossime elezioni assomigli più a quello tecnico che ha retto l’Italia nella prima metà del 2012, che non ai governi che lo hanno preceduto dopo la fine della prima repubblica, cioè a partire dalla caduta del settimo governo Andreotti, il 28 giugno 1992.
Ma il nuovo Parlamento non potrà limitarsi solo ad esprimere un esecutivo di tale natura, sia perché un “tecnico” che non sia anche – e soprattutto – un politico è inevitabilmente un conservatore se non dello “statu quo”, certamente del sistema di cui conosce il funzionamento, sia perché il governo Monti è nato in circostanze eccezionali, per prendere dure misure eccezionali. Misure che il paese già incomincia a trovare insopportabili, tanto più che la burocrazia, per nascondere la propria inefficienza tende a “fare ” la faccia feroce”.
Verso un Parlamento Costituente
Le Assemblee elette nella prossima tornata elettorale avranno inevitabilmente anche un compito di rifondazione istituzionale, che necessiterà di consenso politico, e di maggioranze più ampie che non quella di governo.
Anche senza un gesto eclatante, come quello che portò gli Stati Generali del 1789 a dichiararsi Assemblea Costituente, appare infatti inevitabile che, nel nuovo Parlamento, l’intero disegno della nostra vita associata venga posto in discussione.
Dall’azione del nuovo Parlamento il paese dovrebbe uscire profondamente rinnovato, per poter essere in grado di competere in un sistema economico e politico mondiale anch’esso in profonda crisi, ed ormai esposto – come mai dopo il 1945 – ad ogni tipo di pericolo, persino a quello sino a ieri impensabile della guerra.
La stessa natura dei problemi già oggi sul tappeto indica un’inevitabile evoluzione delle Camere che saranno elette tra qualche mese verso un ruolo di tipo costituente. Molti temi, affrontati spesso sotto il semplice profilo della indispensabile riduzione della spesa pubblica, presentano invece un risvolto istituzionale importante.
La questione del carattere decentrato o unitario dello Stato, resa nuovamente di attualità, e della massima importanza, dalla innegabile “morte della distanza” determinata dal progresso delle telecomunicazioni, e dalla crisi della dimensione “locale” in un mondo suburbanizzato, sarà inevitabilmente evocata quando sarà infine affrontata la questione dell’abolizione delle Provincie, e del ridimensionamento del ruolo delle regioni.
Contemporaneamente, il tema dei poteri dello Stato rispetto ad altri soggetti sociali e politici apparirà in pieno – sia che la si voglia esplicitare, oppure, come accade oggi, che si preferisca tacerne, considerandola come una naturale conseguenza di patti internazionali – è già pienamente presente nella questione delle cessioni di sovranità fiscale e di bilancio a livello europeo.
Il carattere sociale o meno dello Stato, è un altro elemento fondamentale della “Costituzione materiale” di ogni società. In Italia, questo carattere era siano a ieri fondato sull’originario compromesso che partorì la formula della Repubblica “fondata sul lavoro”, e sulla successiva fase di grande mobilità sociale e libera creatività imprenditoriale che ha diffuso il benessere nella quasi totalità del Paese. Ma anch’esso appare oggi in necessità di una ridefinizione, tanto nella questione della riforma del mercato del lavoro di fronte alla sfida della crisi globale, quanto in quella dell’arbitrato tra gli interessi di generazioni diverse, arbitrato che oggi viene quotidianamente compiuto a sfavore di quelle più giovani.
C’è poi la questione, il tema del carattere democratico dello Stato e del rapporto tra rappresentatività e governabilità: una questione che – evocata da oltre vent’anni senza che nessun equilibrio soddisfacente sia stato trovato – è al cuore della pasticciata e scoraggiante zuffa oggi in corso su temi come la riduzione de numero dei parlamentari, la perdita di significato del bicameralismo, il carattere semipresidenziale della Repubblica, e soprattutto sul problema centrale di una legge elettorale che restituisca rappresentanza alla popolazione.
Né si può infine dimenticare la necessità di una revisione costituzionale che ristabilisca il coordinamento tra l’azione della Magistratura e quella degli altri poteri dello Stato. Necessità la cui estrema urgenza è stata ancora una volta dimostrata dalla gravissima vicenda di cui si è resa responsabile l’Agenzia Moody, che ha reagito all’incriminazione dei sui uomini in Italia con una brutale e ingiustificata degradazione del rating dell’Italia, non solo a mercati apert, ma addirittura mentre era i corso una presentazione del Premier Monti al gotha della finanza internazionale.
Si è dimostrato così ancora una volta che la Giustizia – se deve essere cieca nel senso di trattate alla pari tutti cittadini – non può, specie quando tratta con soggetti che essa stessa considera pronti a tutto, non graduare nel tempo e nei modi i suoi interventi in modo da non danneggiare l’interesse nazionale
Questi cinque temi cruciali si prestano a considerazioni diverse. Se le Province, concepite come aree di controllo del territorio da parte del Ministero degli Interni, attraverso dei Prefetti, e quindi ritagliate in modo che i Carabinieri potessero (a piedi) raggiungerne qualsiasi punto con dodici ore di cammino, appaiono nettamente superate, lo stesso non vale per gli altri punti sopra elencati. Va anzi tenuto presente che oggi il clima politico-ideologico appare nettamente meno vivace che non alla fine degli anni ’40, quando sopravviveva molto del patriottismo e dell’entusiasmo della Resistenza, e che quindi il rischio non è piccolo di avere una Costituzione più arretrata, meno democratica e meno sociale.
Una riforma costituzionale non è infatti un processo legislativo come gli altri. Storicamente, una trasformazione istituzionale è sempre la conclusione di un processo rivoluzionario che ha reso evidente il rifiuto, da parte di una società, del pre-esistente sistema di governo. Più precisamente, la creazione di una nuova struttura istituzionale destinata a durare nel tempo è un momento in un certo senso “contro-rivoluzionario”, che pone termine al caos e alle successive fasi di ogni “rivoluzione”, cioè di ogni processo di delegittimazione e di trasformazione di un sistema pre-esistente, e consacra una nuova legittimità.
E’ evidente però che in Italia, pur essendo molto avanzata la delegittimazione del sistema della cosiddetta “seconda Repubblica”, la fase “rivoluzionaria” non è compiuta. Il nostro paese è ancora pienamente nella fase caotica per quanto riguarda la proposta, e non sono ancora delineati i tratti di un sistema politico alternativo.
La protesta ed il rifiuto da parte della società sono universali e di forza crescente, ma la situazione è estremamente carente sul lato della proposta. E ciò sarà con grande probabilità confermato dalla stessa inevitabile presenza, alla prossima Camera e al prossimo Senato, di gruppi di eletti che, per forza di cose, avranno solo carattere distruttivo.
Fase della protesta, fase della proposta
L’ondata di proteste che scuote la società italiana, senza essere però in grado di formulare nessuna proposta alternativa, è infatti assai forte, ma si è sinora indirizzata, e si indirizza tuttora, più contro il personale politico, che contro il sistema di selezione e di formazione dei gruppi dirigenti, le cui carenze sono a loro volta legate al grave immiserimento culturale e ideologico successivo al 1989.
La minaccia principale sul nuovo Parlamento è costituita dalle formazioni elettorali di pura protesta, che – se non verranno “recuperate” da qualche “potere forte” – rischiano di far emergere un personale forse meno compromesso con i disastri del passato, ma probabilmente ancora meno preparato ed affidabile di quello oggi esistente, e soprattutto meno motivato politicamente. E se è vero che si tratta di formazioni che, dal punto di vista strategico, spesso non suscitano altro che disprezzo da parte dei vecchi professionisti della politica, esse rappresentano però un elemento di destabilizzazione delle vecchie cordate di potere che va preso in attenta considerazione dal punto di vista tattico.
L’ondata di proteste contro la “casta politica” che scuote oggi l’Italia ha varie strade possibili davanti a sé, ed una di queste è certamente quella autoritaria. Già all’inaugurazione dell’Assemblea Costituente, nel 1946, i trenta eletti dell’Uomo Qualunque – che aveva raccolto poco più del 5% dei voti – entrarono significativamente in Aula marciando inquadrati e portando il passo come un esercito d’occupazione.
Oggi il rischio di un fenomeno analogo è molto maggiore, perché il potenziale bottino elettorale molto più inquietante, la qualità dei capipopolo in lizza e della loro retorica sono molto più efficaci di quelli di allora, la potenza (e la natura non più a senso unico) del sistema delle comunicazioni incomparabilmente diversa.
Da un lato, il leader populista oggi emergente sembra voler estendere i propri ambiti di intervento e di agitazione oltre i luoghi comuni (peraltro spesso fondati) sulla corruzione della classe politica sino ai temi assai delicati dell’immigrazione, della politica estera, e addirittura alla questione del terrorismo.
Dall’altro, il movimento a base regionale, in pieno declino, sembra chiudersi in se stesso e voler ripiegare sul Nord. E ciò non può che rendere il quadro ancora più allarmante, specie se si tien conto dell’evoluzione dell’Europa occidentale, che vede un ritorno ai contrasti d’interesse e d’ambizione tra gli Stati nazionali, a rivalità pre-1956, ed addirittura a comportamenti che tendono a cancellare la storica svolta di quell’anno.
La sfida elettorale
E’ chiaro come, di fronte a questa realistica minaccia, sia urgente creare le condizioni per dar vita ad una sorta di “Parlamento costituente”, la cui composizione renda possibile il dibattito anche culturale sulla trasformazione delle istituzioni.
Per evitare che le Assemblee che saranno scelte nella prossima tornata elettorale degenerino nella baruffa retorica, nella rissa, nel parlamentarismo deteriore, nelle congiure di palazzo, e nel mercato degli eletti ancor più e peggio di quanto non sia di recente già accaduto, è dunque necessario che siano presenti tra gli eletti quei soggetti che hanno idee e posizioni con cui contribuire ad un dibattito vero sulle possibilità e sul futuro della società italiana. Così come è necessario siano presenti le principali forze portatrici di istanze sociopolitiche vere e radicate nel Paese.
La creazione di una Struttura d’accoglienza per queste individualità e per queste forze è dunque una necessità estremamente prioritaria , così come è inevitabile ed urgente che tale struttura si organizzi per trasferire nelle nuove Assemblee la riflessione ed il dibattito.
L’obiettivo immediato non è quello di costituire un soggetto politico fondato sullo stesso criterio che ha portato alla nascita del “governo dei professori”. L’obiettivo è invece quello di consentire la partecipazione alla competizione elettorale, e quindi la presenza in Parlamento, di quelle personalità e forze intellettuali e politiche che tutte le burocrazie di potere, indipendentemente dai loro grandi orientamenti politico sociali, tendono accuratamente e sistematicamente ad escludere dal dibattito pubblico, e spesso a ridurre addirittura al silenzio e all’emarginazione.
Ed è perciò naturale che tale Struttura d’accoglienza si presenti nell’arena politica con una composizione culturale, sociale ed ideologica altrettanto aperta e complessa quanto lo è la società italiana, ma con esclusione dei ceti puramente parassitari e culturalmente inerti. L’area di riferimento naturale sarà perciò quella dell’Italia che pensa, e che rispetta e discute il pensiero altrui, l’Italia che studia e che lavora, che produce e che esporta. Così come l’Italia che cerca seriamente lavoro, che rifiuta l’emigrazione intellettuale così come la facile delocalizzazione, e vuole continuare a lavorare, a produrre, e a esportare.
La speranza è quella di porre rimedio alla gravissima mancanza di punti di riferimento storico-sociali e politico-culturali di gran parte delle forze organizzate che si preparano a scendere nell’arena elettorale. Ed evitare che il Parlamento diventi davvero l’aula sorda e grigia che è nell’auspicio di tutti i nemici, vecchi e nuovi, delle forme democratiche di governo.
Il difficile compito strategico sarà quello di raccogliere le forze che rifiutano la “politica politicante”, concepita come continuo compromesso tra interessi particolari a scapito dell’interesse generale. E che rifiutano il dibattito politico concepito come talk-show di urli e di insulti. A tali forze toccherà condurre una guerra su due fronti. Da un lato, difendere il sistema democratico e lo Stato sociale come se non esistessero le storture che li hanno in questi ultimi venticinqu’anni tanto pericolosamente indeboliti. E contemporaneamente dedicarsi a ristrutturare profondamente le istituzioni della democrazia e della solidarietà, come se l’ondata della protesta senza proposta non le stringesse e le minacciasse tanto da vicino.
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