La “TENEBRA” DI MADRE TERESA
La rivelazione che Madre Teresa di Calcutta, una straordinaria icona della religiosità del nostro tempo, avrebbe vissuto cinquant’anni e più in una condizione psicologica caratterizzata dalla perdita del “contatto” con Dio e con le certezze della religione, è probabilmente stata la notizia più straordinaria del 2008; e forse la più incoraggiante in quello che è da molti considerato un annus horribilis da dimenticare al più presto.
La notizia ha indubbiamente creato lo sconcerto nei ranghi dei cattolici – piuttosto magri, se non si contano i bigotti e gli ipocriti. Eppure, molti di loro avranno trovato qualche conforto, riconoscendo nel travaglio della religiosa albanese qualche elemento della propria condizione. Almeno in Europa, dove la religione è un fatto personale e non una caratterizzazione sociale o di appartenenza a un gruppo, come in America, il dubbio è, nel migliore dei casi, una condizione intermittente se non prevalente di coloro che si riconoscono legati per cultura e codice morale all’insegnamento della Chiesa di Roma.
La notizia ha indubbiamente creato lo sconcerto nei ranghi dei cattolici – piuttosto magri, se non si contano i bigotti e gli ipocriti. Eppure, molti di loro avranno trovato qualche conforto, riconoscendo nel travaglio della religiosa albanese qualche elemento della propria condizione. Almeno in Europa, dove la religione è un fatto personale e non una caratterizzazione sociale o di appartenenza a un gruppo, come in America, il dubbio è, nel migliore dei casi, una condizione intermittente se non prevalente di coloro che si riconoscono legati per cultura e codice morale all’insegnamento della Chiesa di Roma.
In un certo senso, venire a sapere che la stessa Madre Teresa abbia vissuto tutta la sua vita adulta, con una breve e felice eccezione verso il 1958, in quella che essa stessa ha chiamato “la tenebra”, è probabilmente una ragione di conforto, una rassicurazione sulla normalità della propria condizione.
Visto da altri punti di vista il significato di questa straordinaria rivelazione può essere diverso ma non meno profondo. Si pensi alle centinaia di milioni di induisti che, quando morì questa fragile creatura che aveva scelto Calcutta come sua patria di elezione, ne avevano seguito con una partecipazione che sfiorava l’amore le solenni esequie. Per questi induisti che avevano saputo riconoscere come un vincolo derivante dall’unità del genere umano l’impegno di Madre Teresa, che andava al di là dell’appartenenza ad una religione diversa e per essi assai temibile, la rivelazione può suonare come una sorta di vindicatio. Essi non si erano sbagliati: contrariamente alle meschine e patetiche accuse di qualche fanatico protestante o musulmano, non ci poteva essere nell’impegno della fondatrice delle Missionarie della Carità nessun tentativo di imperialismo culturale e nessun disegno di conversione. Ne risultava la conclusione di una capacità di riconoscere l’impegno morale e la vera natura del rispetto per la vita e per la morte che avrebbe quasi potuto giustificare una superiorità della visione induista del rapporto tra gli esseri umani e le creature viventi in generale.
Beata subito!
Ma vista dall’interno del mondo cristiano la rivelazione assume un significato assai più concreto. Madre Teresa è la figura del XX secolo per la cui elevazione agli altari si è maggiormente impegnato, addirittura scavalcando le procedure previste a tale scopo l’altra grande personalità espressa dal mondo cattolico nel XX secolo, Giovanni Paolo II, una personalità istituzionale e le cui gesta non vincolavano solo se stesso e non rispondevano solo alla propria coscienza come quelle di Madre Teresa, ma tutta la Chiesa Cattolica e la Comunità dei fedeli che con lui si sono profondamente identificate dal giorno dell’elezione a Pontefice in un crescendo che neanche la morte è riuscito a spezzare.
Per avviare la beatificazione di Madre Teresa Giovanni Paolo II non ha atteso i cinque anni previsti per evitare che fenomeni passeggeri di entusiasmo popolare portino sugli altari personalità dotate più di carisma popolare che delle virtù che dovrebbero essere quelle dei Santi. E se oggi le lettere di Madre Teresa ai suoi consiglieri spirituali vengono pubblicate proprio dalla personalità ecclesiastica che ha istruito la procedura di beatificazione, è inverosimile pensare che il Papa non ne fosse a conoscenza. Giovanni Paolo II avrebbe perciò fatto uso di tutta la propria influenza per spingere verso gli altari una persona la cui santità in vita era chiaramente riconducibile più alle opere che alla fede, anzi soltanto alle opere se è vero che – pur soffrendo delle “tenebre” in cui si trovava a vivere – la stessa Madre Teresa ha sempre avuto consapevolezza di ciò che tali “tenebre” la portavano a concludere: la non esistenza di Dio; la non esistenza dell’anima; la natura puramente umana di Cristo; il cristianesimo come filosofia morale. E ciò non può che portare a riflettere sulla stessa religiosità di Papa Woitila.
Di Giovanni Paolo II e del suo immenso successo carismatico si è detto che il “cantante piaceva più della canzone”, che la personalità, il suo evidente impegno a diffondere l’amore nel mondo, in altre parole il suo esempio, venivano ritenuti più importanti di quanto non fosse il messaggio teologico, la lezione filosofica formale che egli sosteneva e che il suo laborioso consigliere teorico, e successore, si affaticava e si affatica ogni giorno a precisare. Ma se ciò è stato detto di Giovanni Paolo II come affettuosa spiegazione della sua contraddittoria personalità, l’impegno con cui egli ha spinto la santificazione di Madre Teresa porta a far pensare che la stessa formula possa essere applicata a una sua deliberata strategia; che egli stesso tentasse di spingere sugli altari una personalità il cui esempio era tale da toccare l’animo di tutti, anche se la sua non-credenza era agli antipodi di ciò che una religione organizzata, un’assemblea di credenti dovrebbe avere come punti fermi.
Se la figura di Madre Teresa esce – dalla rivelazione della sua incroyance – trasformata ed enormemente ingrandita agli occhi del mondo scettico e dubbioso, è la figura storica di Giovanni Paolo II che con questa rivelazione assume una dimensione nuova, più complessa, più problematica e possibilmente indicatrice di quella che potrebbe essere una via del cattolicesimo nel XXI secolo.
“Solo”: una sola parola
Rispetto al passato della Chiesa, la serenità con cui dall’interno stesso del Cattolicesimo è venuta la rivelazione sulla non credenza di Madre Teresa porta a fare alcune supposizioni. Madre Teresa è dunque beata per le opere e non per la fede, a meno che non si voglia delle fede dare una definizione assai audace facendola coincidere con una ricerca di Dio, anche quando mai coronata dal successo, ed identificando come un credente colui o colei che non sente Dio animarlo al proprio interno, ma che lo cerca, e trova solo un vuoto a forma di Dio. Ma riconoscere la ricerca della fede e della verità come equivalente della fede e del possesso della verità significa andare apertamente contro la consolidata convinzione che la fede è una grazia. E soprattutto significa andare nella direzione esattamente contraria a quella presa da Lutero quando, a partire dalla seconda lettera di San Paolo ai Romani, aggiunse – al concetto che ci si salva per fede – la parola “solo”, e negò che le opere potessero in qualche modo essere una via verso la salvezza dell’anima.
Certo, Lutero era come tutti, o quasi, uomo del suo tempo. E il suo sottolineare l’interiorità del sentimento religioso anziché l’esteriorità manifestata attraverso le opere si riferiva soprattutto a ciò che per opere intendevano molti principi e molte personalità religiose del suo tempo, le donazioni in denaro, la costruzione di Chiese, perfino le guerre contro infedeli ed eretici: un concetto assolutamente diverso dalle opere come intese da Madre Teresa di Calcutta. Resta però il fatto che, nonostante siano trascorsi quasi cinque secoli, il dissidio sui ruoli rispettivi della fede e delle opere nella salvezza ultima dei Cristiani rimane alla base di un dissenso formalizzato dal concilio di Trento e che solo qualche anno fa un accordo tra il Cardinale Caspar e i dirigenti della Chiesa Luterana aveva cercato di superare, con una dichiarazione comune che è però assai più vicina alle posizioni di Lutero che non a quella Tridentine.
Role models
Svelare al mondo che la forza disperata che Madre Teresa poneva nella sua azione missionaria veniva più dall’assenza di Dio che dalla Sua presenza; facendo così intravedere che il nome del suo ordine – “le Missionarie della Carità” – potrebbe anche essere inteso come una voler marcare une distinzione rispetto a tutti gli altri missionari, che sono missionari del Vangelo, apre un capitolo nuovo nella questione della giustificazione e ridà fiato e speranza a chi crede che con il proprio impegno personale per scelta e per volontà si possa essere buoni cristiani anche senza essere toccati dall’arbitraria grazia della fede.
Madre Teresa era dunque non-credente. La parola “atea” non è stata detta, forse per pudore più che altro. Ma la Chiesa ha già precisato che ci sono due tipi di non-credenti: quelli che si fanno promotori dell’ateismo e della lotta contro la fede, e quelli che dell’incroyance sono vittime passive ed incolpevoli, per non essere riusciti a trovare la fede nella loro ricerca del bene. A questi secondi, la beata Madre Teresa di Calcutta offre un segno di riconoscimento da parte della comunità cattolica e delle sue istituzioni organizzate. In più, il suo esempio apre ad essi un vasto campo di impegno e di collaborazione che sembrava fino ad oggi precluso, e profila un modo attraverso il quale potranno dirsi cristiani molte donne e molti uomini che vivono in un secolo in cui sembra esser stata conclamata la “morte di Dio”.
La salvezza attraverso le opere, la possibilità di essere cristiani attraverso la virtù della carità rivoluziona molte idee che andavano stabilite e indiscutibili. Se le virtù del buon cristiano erano tradizionalmente tre – la fede, la speranza e la carità – l’esempio di Madre Teresa dà alla terza delle virtù teologali capacità di esistere autonomamente anche in assenza della fede, un’assenza che implica la fine di ogni speranza non solo nella salvezza dell’anima, ma anche di ogni sopravvivenza dopo la morte del corpo fisico dell’uomo.
È chiaro che sono queste pure estrapolazioni. Non sappiamo nulla né delle ragioni per cui queste lettere sono state rese note nel 2008, né del come esse verranno recepite ed interpretate dalla gerarchia cattolica e dalla dottrina. Ma Madre Teresa di Calcutta è già un’icona assai popolare in tutto il mondo, così come Giovanni Paolo II, promotore della sua beatificazione. E l’imitazione dei santi non è soltanto qualcosa cui la Chiesa ha tradizionalmente incitato i fedeli, ma anche un moto spontaneo dell’anima, e un modo per tanti di cercare di essere migliori. Detto con parole di oggi Madre Teresa come Giovanni Paolo II sono dei role models e la tendenza ad imitarli non dipende soltanto da indicazioni ufficiali, ma corrisponde a un bisogno estremamente acuto di un’umanità che vive in un’epoca estremamente anti-utopica e che non sa proporre se non obiettivi edonistici e consumistici di brevissimo periodo e a carattere sostanzialmente pagano.
Geopolitica delle religioni
Sottolineare l’importanza delle opere come parametro di eticità supera e di molto il solo ambito dei rapporti tra cattolici e luterani, per investire un ambito di problemi assai più ampio, e legati ai rapporti anche con le fedi non cristiane, rapporti che la caduta degli ostacoli alla comunicazione e agli scambi della popolazione – la cosiddetta “globalizzazione culturale” – hanno reso intensi come non mai. Questo fenomeno ha determinato una nuova “geopolitica delle religioni”, attraverso un rimescolamento di popolazioni dalle fedi diverse, che sembra destinato a continuare ed anzi ad accelerarsi nel futuro prevedibile. Ed ha determinato la convivenza fianco a fianco di persone dai codici etici differenti, e la cui vita ha un senso solo in virtù di valori assoluti che, dovendo convivere e confrontarsi quotidianamente con altri diversi codici e valori, hanno inevitabilmente portato al relativismo etico, cioè alla caduta del loro carattere di assolutezza.
Il problema della convivenza gomito a gomito tra persone e comunità dai differenti codici etici e dai differenti valori assoluti, si afferma – in questo nuovo secolo – come un problema cruciale, anche dal punto di vista politico. Perché si tratta di una commistione che non è possibile senza competizione e sopraffazione, come è ben evidente nella società – quella americana – dove per prima hanno convissuto e si sono intimamente mescolate confessioni cristiane diverse. Il risultato è infatti stato che, per ragioni storiche e di potere, l’America è rimasta per un paio di secoli un paese caratterizzato dal dominio culturale protestante al punto che l’intera società risultava, nel ventesimo secolo, fortemente “protestant-minded”, e che gli stessi cattolici partecipano ormai di questa mentalità.
A questa affermazione si può certo avanzare l’obiezione che, come religione, il protestantesimo non è stato capace di sopravvivere alla sfida dei secoli come è stato capace di sopravvivere il cattolicesimo. Perché il protestantesimo ha – certo – in gran parte informato di sé la moderna società capitalistica, trasmettendole i propri valori, ma ne ha pagato il prezzo dissolvendosi in essa. Mentre il cattolicesimo ha mantenuto la propria identità religiosa e culturale e soprattutto la propria capacità critica nei confronti del materialismo capitalista, ed addirittura l’ambizione e la speranza di poter offrire ad esso un’alternativa futura. Ma ciò non toglie che la società americana oggi come oggi è profondamente permeata di un’ideologia che vede il successo e la ricchezza terrena come il segno di una grazia concessa dall’alto, che condanna i poveri come il male, e che non attribuisce nessun valore alle opere, e che non discrimina tra i modi in cui la ricchezza e il successo sono stati ottenuti.
Ed è questa la cultura e la visione della società che un cinquantennio di egemonia culturale americana ha diffuso nel mondo, spargendo attraverso lo spirito del capitalismo l’idea luterana dell’irresponsabilità dell’uomo nei confronti del bene e dell’irrilevanza dell’impegno personale attraverso le opere: un dominio culturale che, tra i tanti conflitti che esso genera, rischia di lasciare al solo Islam il privilegio di essere portatore di un’etica in cui le opere contano se non quanto la fede, certo molto di più di quanto esse non contassero nella visione di Lutero, e di quanto esse non contino nella società scristianizzata e protestant-minded oggi trionfante in Occidente.
Il privilegio dell’Islam
La forza di questo privilegio, e la questione dei rapporti con l’Islam non erano certo ignote a Madre Teresa che, per la più gran parte di quella che oggi sappiamo essere stata una vita di tormenti, ha vissuto a Calcutta, nel cuore dello Stato indiano del Bengala, cioé a stretto contatto con un Islam minoritario – e quindi sulla difensiva – in un paese induista e diviso in caste, che tanto più lo opprime quando più ne teme il messaggio egalitario, e quindi rivoluzionario. Nelle sue scelte di vita, l’esercizio della carità senza condizioni, non è impossibile che abbia pesato l’esigenza di contrapporre opere alle opere, anziché credo a credo. Il solo fatto che l’Ordine da lei fondato si chiami “Missionarie della carità” segna un’alterità rispetto al fine che è normalmente quello degli ordini missionari: la diffusione del Vangelo. Ed è un’alterità che le ha consentito di proseguire la sua opera per tutta la sua vita, anche nei lunghissimi anni della “tenebra”, cioè una condizione personale e di coscienza in cui la predicazione del Vangelo sarebbe stata opera insincera e probabilmente insostenibile.
C’è, però, nel grande coraggio di Madre Teresa molto di più che un caso di personale eroismo, più che un esempio di dedizione al bene altrui anche in assenza di ogni possibile gratificazione e della speranza della salvezza. C’è un insegnamento di valore universale. Rifiutando di confrontarsi col l’Islam, e ancor più con l’Induismo, sul terreno del proselitismo e della disputa religiosa, Madre Teresa sembra aver trovato una strada – forse l’unica – per una riaffermazione dei valori cristiani al di là della retorica e della propaganda, in un’era in cui il mondo islamico sembra aver conquistato, per abbandono da parte delle fedi rivali, il monopolio della spiritualità.
Gareggiare nella tenebra
Se infatti si guarda all’Islam e al cristianesimo con il metro delle tre virtù teologali, è facile constatare che gli islamici oggi possono vantare per la loro fede una forza incommensurabile a quella della maggior parte dei Cristiani tanto da essere disposti ad una vera e propria eversione della loro stessa etica religiosa che condanna il suicidio ancora più severamente di come lo condanna l’etica cristiana. La superiore forza della loro fede li avvia ovviamente lungo “i sentieri della speranza” in maniera molto meno impaurita ed esitante di quanto non accada per i cristiani loro contemporanei. Ma un caso come quello di Madre Teresa induce a pensare che, sul terreno della terza virtù teologale, sul terreno della carità, il cristianesimo, pur nel mondo decristianizzato in cui ci è dato vivere, potrebbe ancora essere più forte di quanto non sia, nonostante il ruolo fondamentale della zakat, il mondo dell’Islam.
La scarsa capacità dei musulmani a riconoscere Dio nell’uomo che soffre è evidente in tutta la sua storia passata. Non a caso è stato possibile che l’Islam convivesse in tutta la sua storia con il regime schiavistico e con il concetto di schiavitù che il cristianesimo aveva spazzato con la fine del mondo classico e che non ricompare nella storia dell’occidente se non con la fine del millennio cristiano, il Medioevo, per ricomparire solo in coincidenza con il Rinascimento, con la tratta degli schiavi, e con la creazione, in tutto il continente americano, di regimi politici e in sistemi economici fondati sulla schiavitù, in parte ancor oggi perpetuantisi.
Una gara sul terreno della carità è la sola che l’Occidente non sia sicuro di perdere. Ma per potervisi impegnare dovrebbe sfidare i consigli e le tentazioni dei piccoli egoismi ed edonismi di tutti, in una parola del proprio paganesimo de facto. Dovrebbe – come Madre Teresa – compensare con la carità l’assenza di fede e di speranza che deriva dal proprio vivere in una “tenebra” che appare più profonda che mai.
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