Il G20 dell’automobile
Drang nach Osten per la Opel?
E’ con disappunto – e con una certa inquietudine – che, di fronte ai tira e molla tedeschi nella vicenda Fiat-Opel, anche l’europeista più convinto deve constatare quanto sia ormai più facile trovare un accordo ragionevole con l’America di Obama che con i nostri partners comunitari.
Le autorità di Berlino, non meno dei molto « istituzionali » sindacati tedeschi, si sono infatti, in questa occasione, dimostrate assai introverse, e dominate da un ostinato – per così dire – “patriottismo economico”. Inevitabilmente, il disappunto è tanto più amaro quanto più si voluto in questi anni credere, e far credere, che i demoni del passato fossero stati scacciati per sempre. E l’inquietudine è tanto più forte in quanto nelle conseguenze cha ha avuto in Germania la proposta avanzata di Sergio Marchionne – le risse tra governi regionali, le rivalità elettorali tra partiti della coalizione governativa, e le trombonesche sparate dei media – non è possibile non vedere come in esse giochino fattori di natura non economica, né veramente politica. E che se da un lato c’è l’Angst per le incertezze create dalla crisi, non manca dall’altro anche una certa dose di umiliazione di fronte al fatto che sia l’iniziativa di un’azienda italiana a rimettere ordine nel settore automobilistico tedesco, in pieno caos anche sul fronte del salvataggio della Volkswagen da parte della Porsche.
E c’è da aggiungere un’altra osservazione che molti credevano di non dover più fare, in questa fase della più grave crisi dopo quella degli anni trenta. Tutta questa vicenda dimostra che la globalizzazione resiste piuttosto bene alla crisi, e che l’America – ormai guidata dal figlio di un immigrato di colore – non ha ceduto alle sirene del protezionismo, come si temeva che potesse drammaticamente fare. E invece è la Germania – in preda ad una specie di terzana da orgoglio teutonico, simile a quello che l’Iveco dovette sopportare prima, durante e dopo il salvataggio della Magirus Deutz – a dimostrare che il nazionalismo economico, tanto spesso denunciato come il più pericoloso consigliere in tempo di crisi, alberga ancora tra gli istinti dei politici, e che esso può manifestarsi addirittura là dove esso sembrerebbe dover essere meno di casa: tra paesi membri dell’Unione Europea.
E che la dose di irrazionalità e di pregiudizio, nel comportamento tedesco, sia davvero eccessiva è confermato dal fatto che a un certo punto persino il superpragmatico Marchionne, che certo non è tipo da fare questioni dipique, ha finito per ritenere opportuno mettere qualche puntino sulle “I”, facendo osservare che in definitiva a Berlino, lui, non era certo andato per chiedere l’elemosina.
Assai significativo è anche che a far rullare più fragorosamente la grancassa del “rischio disoccupazione” siano i rappresentanti dei Länder dove i licenziamenti di massa sono solo una possibilità teorica. Dal questo piccolo ma rumoroso coro si distingue infatti – per aver criticato la proposta Magna – il Minister-Präsident del Land delNordrhein-Westfalen, Jürgen Rüttgers, dove si trova la città di Bochum, sede di uno degli impianti più antieconomici, e quindi più “a rischio” della Opel. Ma soprattutto città dove, nel gennaio di quest’anno, la Nokiaha annunciato 5000 licenziamenti, come conseguenza del trasferimento della sua intera fabbrica in Romania. Città, cioè, in cui quando si parla di salvataggi industriali – e/o viceversa di licenziamenti di massa – si sa di che cosa si parla, e non si fa solo retorica patriottarda.
Insomma, per dirla brutalmente, tutta questa vicenda – quale che sia la sua conclusione – rischia di restare agli atti come una bruciante sconfitta politica per l’Europa, e come una vittoria per la globalizzazione. O almeno – come ha scritto sulla Stampa Mario Deaglio – per “la prima impresa industriale a carattere globale del XXI secolo”.
Geopolitica dell’automobile
E’ interessante, a questo proposito notare che il quotidiano finanziario francese La Tribune – cioè una fonte normalmente seria – è arrivato a proporre addirittura “un G20 per l’automobile”: uno slogan che definisce bene quel che di fatto la Fiat ha messo in moto, con in meno tutto l’inutile cerimoniale diplomatico e le foto di gruppo che abbiamo visto a Londra..
Infatti, alla base della complessa partita transcontinentale che Marchionne sta giocando non c’è solo la superiorità tecnologica della Fiat, ma anche la situazione, in USA e in Germania per quanto attiene al settore automobilistico, e in generale alla politica di divisione internazionale del lavoro. A partire dall’inizio degli anni ottanta, l’élite americana del potere e del danaro ha trovato conveniente trasferire gran parte del settore manifatturiero verso la Cina e altri paesi in cui la classe operaia presta la propria opera in condizioni quasi schiavistiche, per quel riguarda i costi del lavoro, e di assoluto laissez faire, per quel che riguarda sia la responsabilità sociale dell’impresa che gli oneri e le prestazioni assistenziali. Il pressoché irreversibile risultato di questa scelta, che ha del tutto trascurato il pericolo della nascita di una potenza potenzialmente rivale, è stato una obsolescenza tecnologica ed un degrado gravissimo del sistema manifatturiero statunitense, il cui contributo al PIL è ormai inferiore al 10%, e di cui il fallimento del settore automobilistico è una conseguenza, di ampiezza e gravità proporzionale alla centralità del comparto.
In Germania, al contrario, c’è stato uno sforzo deliberato e coordinato dalle autorità di governo per mantenere nel paese, anche negli anni in cui la globalizzazione sembrava trionfante, una quota significativa di attività industriale – più del 18% del PIL – attraverso l’innovazione e il contenimento dei costi del lavoro nella stessa Germania, e il decentramento di molte attività indotte nel proprio near abroad, cioè in paesi o frammenti di paesi su cui, dopo il crollo dell’URSS, Berlino esercita una crescente influenza economica e politica. L’iniziativa strategica della Fiat, negli Stati Uniti è stata perciò inevitabilmente vista come l’intervento salvifico, di una nuova specie di business angel. Mentre a Berlino viene trattata come un’occasione da utilizzare nel quadro di una strategia non solo di politica industriale, ma anche di politica internazionale: una strategia, ques’ultima, probabilmente troppo ambiziosa rispetto ai mezzi di cui la Germania effettivamente dispone. “Ma era scritto che fosse così”, ha commentato il Financial Times: “che la politica finisse per tenere un ruolo determinante nel determinare il futuro della Opel e del resto di General Motors”.
Il fattore industriale
In questa strategia, che vede un coordinamento tra forze imprenditoriali, sindacali e di governo, che negli Stati Uniti non è possibile neanche nei nuovi tempi di Barak Obama, rientra naturalmente la ricerca di un forte rapporto con la Russia post-comunista. E’ questo un obiettivo Berlino persegue tanto più tenacemente quanto più l’Amministrazione Bush ha lavorato per renderlo impossibile, e –soprattutto – quanto più la UE colpevolmente lo trascura, nonostante esso sia nell’interesse vitale di tutta l’Europa continentale. Ed è questo obiettivo di un rapporto strutturale con la Russia che fa sì che, in alternativa al grande disegno strategico di Marchionne, sia stata presa in considerazione – e forse addirittura suscitata – la cosiddetta “opzione Magna”
E’ chiaro infatti che, sul piano industriale, l’offerta austro-canadese non è comparabile a quella della Fiat. L’apporto finanziario che essa ostenta è solo una boccata d’ossigeno che potrebbe consentire alla Opel di tirare avanti un altro po’, per ritrovarsi rapidamente con gli stessi problemi che ne minacciano oggi la sopravvivenza, in un contesto generale ancora più difficile. La possibilità che la Opel lavori in subcontracting per altre case automobilistiche, poi, nell’attuale contesto di un eccesso strutturale di capacità produttiva, è credibile quanto lo erano le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein come scusa per attaccarlo.
Tutto, nell’offerta della Magna, si fonda sul rapporto con la Russia. E si gioca sul rapporto politico, non sul rapporto industriale, men che mai nel settore dell’automobile. Perché il grande vicino dell’Est non ha né capacità di mercato insoddisfatte (quali quelle offerte dagli Stati uniti nel campo delle vetture a basso consumo), né capacità tecnologiche da offrire (come le ha, proprio in questo essenziale campo, l’industria italiana), né un grande disegno strategico come quello di Marchionne (che, come ha scritto ancora Mario Deaglio “ per progettare e vendere con successo un nuovo tipo di auto”, punta a creare “un nuovo modello di impresa, un nuovo tipo di rapporto con la società”.
Mantenere buone relazioni – anzi, trovare un’integrazione a molti livelli – è certo un interesse vitale dell’Europa: di tutta l’Europa e non solo della Germania. E questo vale anche in altri campi: ad esempio, in quello del nucleare civile, dove invece Berlino ha rotto una lunghissima collaborazione con Parigi, per non piegarsi al ruolo leader del “campione nazionale” francese Areva, ed ha avviato una nuova partnership con i Russi.
Ma accontentarsi di un rapporto bilaterale sarebbe un errore storico, di cui la Merkel rischia di portare in eterno il demerito. Se non c’è dubbio che Berlino debba svolgere un ruolo ineliminabile in questo epocale riavvicinamento geo-economico, è altrettanto evidente che cercare da sola un rapporto con la Russia sarebbe una grave sconfitta per la Germania post-nazista, così come accettare un rapporto privilegiato con la sola Germania, equivarrebbe per la Russia post-comunista alla perdere di un’occasione storica.
Se Berlino intende dare un segno di particolare riguardo nei confronti della Russia fa un’opera indubbiamente meritoria, dopo un lungo periodo in cui la Russia uscita sconfitta dalla Guerra Fredda è stata trattata dagli Americani e dai loro imitatori con lo stesso irresponsabile atteggiamento punitivo con cui la Germania fu trattata dall’Inghilterra e, soprattutto, dalla Francia dopo la prima guerra mondiale. Ma ci sono molti altri tavoli negoziali tra le due parti, in primo luogo quello del gas, su cui gli Europei avrebbero ampio spazio per dimostrare – se lo volessero – di non avere contro Mosca un’implacabile ostilità. E non si capisce quindi perché la Germania e l’Europa tutta debbano pagare un prezzo tanto alto, quanto sacrificare a questo fine la razionale ristrutturazione della loro industria automobilistica.
Il fattore tempo
Il fattore tempo gioca un ruolo essenziale in questa partita. E concorre a differenziare la situazione tedesca da quella americana.
Obama, con un’urgenza drammatica del fallimento di almeno due delle tre grandi aziende automobilistiche, e con le elezioni ormai alle spalle, non poteva che imporre scadenze assai ravvicinate agli altri protagonisti della vicenda. La squadra politico-economica tedesca, con le elezioni che incombono, e nel pieno di una grandiosa operazione politico-strategica relativa ai rapporti con la Russia, punta chiaramente a guadagnare tempo rispetto alle scadenze che dall’America e dalla General Motors si ripercuotono sulla Opel. Non a caso è stata ventilata l’ipotesi di un intervento finanziario dello Stato federale per mantenere artificialmente in vit la Opel, anche quando la General motors dovesse colare a picco. Punta cioè a manovre che, dal punto di vista dell’industria e del buon senso significano non “guadagnare”, ma “perdere” tempo; tempo, però, prezioso per il disegno partito da Torino.
I Tedeschi, che saranno anche rozzi ma non sono sciocchi, si rendono probabilmente conto che il loro “guadagnare tempo”, cioè il loro perdere tempo, rischia di costare assai caro, in termini di una rara occasione perduta, al loro sistema produttivo. E certamente si rendono conto del gravissimo colpo che ne verrebbe al più che cinquantennale progetto politico europeo, se l’operazione Marchionne finisse per dimostrare c’è più possibilità intesa, più senso di un destino comune tra le due sponde dell’Atlantico che non in Europa continentale. Anche se molti lo dicono, in particolare i Francesi, non è verosimile che – dopo la riunificazione – i Tedeschi stiano lentamente tornando ad essere preda dei vecchi demoni nazionalisti, e non apprezzino più i vantaggi dell’Europa unita.
I Tedeschi non hanno certo rinunciato all’Europa. Ma è il fattore tempo che appare ad essi in una luce particolare, e soprattutto diversa da quella dei Francesi che, da una decina d’anni fanno un gran parlare dell’Europa, pur essendo tradizionalmente quelli – tra i Sei membri originari – che più l’hanno rallentata, e più hanno cercato di farne il piedistallo per le loro ambizioni nazionali. I Tedeschi si sono invece piegati a lungo a giocare un ruolo da essi stessi definito “modesto”, dando più di quanto ricevevano, non solo in termini economici, ma anche politici.
Oggi, le cose sono cambiate. Parigi ha la sensazione che il tempo lavori contro di lei, e che – più gli anni passano – più diventa difficile costruire un’Europa che sia una “Francia più grande”; cioè un soggetto politico che faccia propri obiettivi ed interessi tipicamente francesi. Berlino, invece ha la sensazione opposta. Più la Germania riuscirà a consolidare una sorta di egemonia sui paesi dell’Europa centro-orientale, e più riuscirà a strutturare un proprio rapporto con la Russia, più il resto dell’Europa continentale troverà alla fine conveniente un’Europa che rassomifli molto ad una Germania allargata.
Senza entrare – per ora – in una valutazione delle possibilità di successo, e dei pericolo, di queste contrapposte strategie, ci limiteremo a notare che è dunque in un quadro di grandi ambizioni, e di processi geopolitici a lungo termine che Sergio Marchionne è venuto ad inserire, in posizione di leadership, tutto un comparto dell’industria italiana, a imporre sui tempi e le esigenze della politica quelli dell’economia e della buona gestione.
27 Maggio 2009
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