Comment peut-on être Français
e contemporaneamente italiano?
Ah ! Ah ! Monsieur est Persan ?
C’est une chose bien extraordinaire !
Comment peut-on être Persan ?
Montesquieu, Lettres persanes, lettre 30
“Tu certe volte puoi essere veramente odioso…”, mi disse rabbiosamente la mia amica Cecilia. Poi, cambiando improvvisamente di tono: “Non ti conoscessi come ti conosco, se non sapessi che in realtà sei un angelo, mi chiederei perché diavolo ti frequento!”. E si capiva che era sincera, che non stava affatto scherzando. “Ma che ho fatto?”, chiesi io, anche se avevo una mezza idea della risposta. Non mi aspettavo, però, il modo in cui lei la formulò. “È quando parli francese… diventi un aguzzino…. sembri Robespierre… mi viene voglia di strozzarti!”.
Quella sua reazione mi è rimasta impressa, mi è spesso tornata in mente quando si parla della differenza tra italiani e francesi, della loro diversità di carattere e di comportamenti. Diversità che si manifesta anche ad alto livello, persino nelle relazioni tra Stati sovrani.
L’occasione di quella imprevista dichiarazione di amore/odio non era in sé un evento molto importante. Era accaduto al termine di una conferenza in cui un incompetente totale, di quelli che impazzano in tv, aveva presentato, accompagnato da grandi elogi e salamelecchi, alcune trite e ritrite elucubrazioni sulla democrazia. E alla fine, mentre stavo andando via, un mio ex studente, di quelli per i quali rimani sempre un punto di riferimento, mi si era avvicinato e mi aveva chiesto cosa ne pensassi. E io avevo risposto: “Ce n’est pas Tocqueville”.
Pensavo di essermela così cavata in maniera sintetica e non troppo cattiva. E invece no. Perché forse al mio affezionato studente, ma non certo a Cecilia – che mi conosceva meglio di lui – era sfuggito l’undertone di quella risposta, sprezzante e forse un po’ insolente. E quando le dissi: “Ma era solo una battuta!”, lei ribatté: “Tu puoi essere divertente e ironico quando parli italiano, ma in francese sei sempre sarcastico, o peggio. È per questo tuo lato francese che certe volte risulti antipatico”. Dovetti sembrarle sbigottito (o poco convinto, non so) perché disse perfino: “Con voi francesi… perché tu non devi farti illusioni, tu sei più francese che italiano… con voi francesi, gli altri si sentono sempre giudicati… e sempre con i parametri vostri… e poi le condanne sono sempre definitive, senza possibilità di appello”.
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Crescere con due anime, com’è accaduto a me, può indubbiamente offrire grandi vantaggi. Molti esempi lo confermano. A Plauto, che per primo dichiarò esplicitamente la sua doppia appartenenza culturale, ciò procurò un successo che dura ancora oggi. Egli infatti ripropose in latino, rendendolo così universale ed eterno, l’enorme patrimonio teatrale della sua cultura d’origine e la straordinaria capacità interpretativa del suo popolo: gli osci. Dei quali – non fosse stato per Plauto – forse si ricorderebbe solo l’abitudine di fare continue allusioni alle attività sessuali, di usare linguaggio che ancora oggi viene detto, appunto, “osceno”.
A me, questa doppia appartenenza ha donato – a parte certe antipatie altrimenti inspiegabili – una strana sindrome, una specie di malattia cronica, di cui ho – per così dire – sofferto più o meno a partire dai 18 anni e fino alla soglia dei 40. Una malattia ciclica, come la terzana. Dopo aver fatto base per uno o due anni nella mia natìa Italia, diventavo preda di un incontenibile bisogno non solo di essere altrove, ma di essere in un altrove ben preciso: a Parigi.
Non potevo fare a meno di Parigi: ogni tanto mi ci dovevo rifugiare. Eppure, le mie partenze erano tutto il contrario di un rifiuto dell’Italia, come qualche amico parigino sembrava talora aspettarsi da me, nel convincimento che prima o poi avrei dovuto scegliere se restare italiano o diventare francese. Io anzi partivo portando ancora in me tutto l’aroma e il gusto dell’Italia, tutte le esperienze dolci e amare, quella reminiscenza profonda e carica di emozioni di cui parla Platone nel suo celebre Menone. Un po’ come accadeva a Proust con le madeleines intinte nel tè della zia Léonie. E infatti non ho mai apprezzato il gesto clamoroso di Santa Teresa, che quando lasciò la città natia, dove aveva bruciato di ardenti ma incomprese passioni, fece una sosta al momento di varcarne la porta, si tolse i calzari e, scuotendoli, disse: “De Ávila ni el polvo!”. Un gesto che mi è sempre parso meschino e ingrato. Come si dice a Napoli: “Le cose amare tienile più care…”.
Il mio caso non era dunque quello della Santa di Ávila. Ogni volta che lasciavo l’Italia era per dare avvio a un processo en miroir, a un ciclo uguale e contrario. Quand’era su Parigi che avevo gravitato per più o meno quella stessa durata di tempo, un anno o poco più, venivo preso da una incontrollabile voglia di proclamare il mio essere italiano, magari facendo qualcosa di veramente provocatorio. Come quando ci eravamo messi in testa – alcuni studenti e studentesse, che come me preparavano un dottorato postlaurea alla Sorbona – l’idea di fondare una sezione parigina del Pri, il più patriottico, ma anche il più antiretorico e il più europeista, dei movimenti politici italiani. E qualcuno propose addirittura di intitolarlo, questo ipotetico covo di italianità in terra gallica che non vide mai la luce, a Felice Orsini, al mazziniano che dopo l’intervento francese contro la Repubblica Romana (dove suo padre aveva perso la vita) aveva messo una bomba e fatto una strage davanti all’Opéra. Il suo obiettivo era ammazzare Napoleone III, l’autoproclamatosi “imperatore” dei francesi, che Victor Hugo, il grande bardo della rivoluzione popolare, aveva definito Napoléon le petit. E il cui golpe diede a Karl Marx lo spunto per una delle sue più straordinarie analisi storiche e sociologiche, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
Felice Orsini era stato ghigliottinato per il suo crimine. Ritenemmo perciò preferibile il nome di Garibaldi, un grande italiano che aveva accettato il passaggio della sua città natale alla Francia dichiarando – appena un po’ sibillinamente – “La France est une patrie que j’aime”. Ma nel 1870 era accorso in difesa della appena fondata Troisième République, donandole la sua enorme popolarità e, con l’Armée des Vosges, la sola bandiera prussiana strappata al nemico; solo per essere ripagato con la più totale ingratitudine e invidia, tanto che Victor Hugo fece alla Camera un discorso così furibondo da essere costretto a dimettersi da deputato[1]. In effetti, onorare il nome di Orsini nella Francia infine pacificata degli anni Sessanta avrebbe finito per avere un significato non patriottico ma filo-Oas. Perché i simboli possono cambiare pericolosamente di significato cambiando di secolo.
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In realtà, avrei voluto essere contemporaneamente in entrambi i luoghi che ho più e più a lungo amato. Avrei voluto essere contemporaneamente in Italia e in Francia, o poter passare dall’una all’altra, come quando ero ragazzo, a Napoli, semplicemente aprendo e richiudendo una splendente porta a vetri.
Quella porta a vetri non era né un sogno, né un simbolo. È veramente esistita, e forse esiste ancora. Era la porta d’ingresso dell’appartamento in cui sono cresciuto e che mia madre – appena sbarcata da Parigi, dove aveva vissuto ed era stata apprezzata ed accettata prima di sposarsi e di seguire mio padre in quella terra incognita che per entrambi era a Napoli – aveva, in maniera credo più inconsapevole che deliberata, trasformato in quel che ella stessa finì per definire un petit havre parisien, un atollo francofono nel vociante oceano partenopeo. Mia madre, come capii più tardi, era una pianta parigina, e quel giardino segreto era fatto apposta per le sue radici. Non solo le conversazioni, ma anche i pensieri vi erano bilingui, cosi come la biblioteca che mio padre e mia madre vi avevano un po’ disordinatamente raccolto. Tanto che per molti libri, anche certi il cui contenuto è rimasto come stampato dentro di me, non saprei oggi dire in che lingua li ho letti, se in italiano o in francese.
Se mia sorella iniziò a un certo punto a percepire questa duplicazione linguistica e culturale come una lacerazione, e in seguito scelse di essere al cento per cento italiana, questo non fu il mio caso. Anzi, ho sempre considerato come un vero privilegio il fatto di avere una doppia finestra sul mondo. Ma lei, che aveva due anni più di me, andava alla scuola pubblica e si sentiva “una marziana” quando, come di tanto in tanto le capitava, seminava la sorpresa tra le sue compagne pensando ad alta voce in una lingua che per loro era estranea e bizzarra, ma che per noi era una lingua intima, una delle due che condividevamo con i nostri genitori e in cui indifferentemente pensavamo quando eravamo soli con noi stessi.
Il destino, che a me è sempre stato favorevole, giocò in questo un ruolo importante. Perché nell’autunno del 1943, quando toccò a me essere iscritto alle elementari, i miei genitori non ebbero praticamente che una sola possibile scelta; una scelta che il repubblicano laico che era mio padre non accettò che obtorto collo. In quei mesi, infatti, Napoli, dopo essere stata atrocemente distrutta da 110 bombardamenti angloamericani, incominciava – a malapena liberata dall’occupazione tedesca – a subire i successivi 84 bombardamenti della Luftwaffe. Moltissime scuole erano distrutte, o funzionavano a singhiozzo. L’unica vera possibilità era la scuola francese “Giovanna d’Arco”, che era stata – credo non del tutto casualmente – risparmiata, così come il monastero popolato di religiose francesi in cui essa aveva sede.
Essendo uno stabilimento riconosciuto dal Ministero dell’Educazione nazionale, la maggior parte dei corsi era ovviamente in italiano. Ma nonostante lo sforzo delle volenterose sorelle, il francese riemergeva da tutte le parti e ad ogni momento. E se i miei compagni di scuola potevano recuperare in famiglia la perdita di contatto che stavamo subendo con la lingua e la cultura del nostro paese, ciò valeva solo in parte per me, che ero già fortemente immerso nel bilinguismo anche in famiglia. Insomma, per me il francese fu, quando avevo tra gli otto e i dieci anni, qualcosa di più che una delle due lingue in cui mi sono formato come persona, come essere umano. Divenne la lingua con cui pensavo le cose più complesse ed esprimevo i sentimenti più profondi e personali, che immaginavo gli altri non potessero capire. Avevo solo otto anni quando si verificò il piccolo episodio in cui ancora oggi ne vedo la prova.
La causa ne fu un’automobilina a pedali rossa e blu che mi era stata regalata due o tre anni prima e alla quale ero molto affezionato, anche se ero cresciuto un po’ troppo rapidamente e non ci stavo più dentro. Anzi, di fatto non ci giocavo più. Ma fu comunque una bruttissima sorpresa quando, un pomeriggio, tornando da scuola, vidi che era scomparsa. I miei genitori, ritenendola ormai superata, l’avevano donata alla parrocchia perché un bambino povero – e a Napoli ce n’erano a non finire – potesse beneficiarne. E fu con questa spiegazione, che faceva appello allo stesso tempo alla mia ragione e alla mia gentilezza d’animo, che mio padre cercò di consolare il mio terribile disappunto. Con scarso successo, tuttavia; perché non la smettevo di piangere. Fino al momento in cui, accanto alla sua larga spalla, vidi apparire la sagoma di mia madre. Sembrava quasi sorridere dolcemente del mio dolore, poi approfittò di un momento di pausa per pormi una specie di strana domanda: “Objets inanimés, avez-vous donc une âme, qui s’attache à notre âme et la force d’aimer?
Non saprei oggi spiegare perché queste poche parole abbiano allora posto fine alle mie lacrime. Non ero confortato, me lo ricordo molto bene; desideravo ancora che la mia automobilina rossa e blu mi venisse restituita. Cosa fosse accaduto, avrei difficoltà a spiegarlo anche oggi, se non dicendo che l’arte, la poesia, erano riuscite dove l’appello alla ragione non aveva portato a nulla. Ma so che questa non è l’intera risposta. Certo! Ero ancora quel bambino deluso, ma mi sentivo come se fossi passato a un altro livello di osservazione. Era come se vedessi me stesso piangere per quella perdita. Forse avevo acquisito per un istante una visione da adulto; ora, avevo la sensazione di dover trovare una soluzione, una risposta a un’altra domanda, più importante di quella su come vivere senza la mia macchinina.
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Questo vivere a cavallo di due culture, questo coltivare due anime parallele, aveva tuttavia una scadenza ben definita, perché l’Istituto Giovanna d’Arco offriva solo cinque anni, fino alla fine della scuola elementare. Così, a partire dall’età di 10 anni l’equilibrio tra le mie due anime venne mutato dal fatto che l’italiano era passata ad essere la lingua dei miei studi, delle mie letture e più tardi – per via di un precoce impegno politico – la lingua dei miei interessi e delle mie passioni.
Uscire e impegnarmi fuori dal piccolo atollo francofono era infatti assai presto diventato, ai miei occhi, un dovere morale sempre meno rinviabile di fronte alle tante scene di vita napoletana, di grande umanità e di ancor più grande sofferenza cui assistevo quotidianamente e che trovavo francamente inaccettabili. Quando avevo solo 14 anni fu infatti una di queste scene, particolarmente tragica e carica di significati sociali e politici, che mi spinse ad andare alla più vicina sezione del Pci a chiedere la tessera.
Neanche in questa occasione, ovviamente, l’abitudine di cercare sempre di inquadrare la realtà allo stesso tempo in due diversi sistemi linguistici e culturali mi abbandonò; anzi mi spinse a diventare un lettore de l’Humanité, il quotidiano ufficiale del Partito comunista francese, di cui il giornalaio di una delle più classiche istituzione napoletane, la Funicolare di Chiaia, riceveva due copie, una delle quali andava a un giovane deputato comunista, futuro Presidente della Repubblica, che conoscevo bene, e che abitava poco distante a casa mia. L’altra copia divenne mia lettura abituale, aggiungendosi così non solo ai tanti – e spesso poco diffusi – giornali che comprava o a cui era abbonato mio padre, ma anche a Topolino, al quale mi legava un mai davvero scomparso amore per Paperino, e a Salgari, un “settimanale di grandi avventure” tratte dai romanzi per ragazzi, quasi tutti di ambiente esotico, dell’omonimo scrittore. Ma era un giornalino troppo raffinato per vivere più di qualche anno.
Il risultato fu del tutto imprevisto: il modo grottesco e distorto in cui l’Humanité raccontava e interpretava ciò che accadeva in Italia, cioè quello che si svolgeva attorno a me e sotto i miei occhi, mi portò rapidamente non solo a dubitare fortemente della sua affidabilità, ma anche a diffidare in generale dell’immagine del mondo che ogni giorno veniva proposta, in italiano o in francese, dalla stampa di sinistra. Eppure, non smisi di comprare e leggere l’Humanité, perché ne apprezzavo il fermo atteggiamento anticolonialista, che peraltro faceva chiaramente a cazzotti con la visione salgariana, e molto ottocentesca, del mondo.
Né abbandonai il mio impegno etico-politico; imparai solo che avrei dovuto esercitarlo con vigilanza e spirito critico. E comunque ancora oggi ritengo che aver fatto parte della gioventù comunista sia stato un passo importante nella mia vita. Anche se poi – dopo il 1956, quando avevo 18 anni – pur non smettendo di dichiararmi marxista per quel che riguardava la “analisi del reale”, non rinnovai più la tessera e abbandonai anche il mio primo lavoretto a Paese sera, dove il partito mi aveva inserito come reporter. Entrai però a far parte del gruppo di Nord e Sud, di orientamento radical-repubblicano, e specificamente impegnato nella causa della redenzione del Mezzogiorno.
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Con il passare degli anni, e man mano che diventavo più maturo, mi resi gradualmente conto di quanto fosse insolito il quadro linguistico e culturale in cui vivevamo, al quale ero tuttavia così affezionato e certo non disposto a rinunciare. E così un giorno, quando avevo più o meno 17 anni, ne chiesi a mia madre una sorta di spiegazione, se non di giustificazione. Mi rispose che, se indubbiamente c’era – per quanto la riguardava – un elemento affettivo, la ragione principale era la sua convinzione che il plurilinguismo avesse un grande valore educativo e politicamente liberatorio. E che per questo era stata pienamente d’accordo con mio padre, il quale – quando ero andato in prima media – aveva insistito perché fossi inserito in una sessione in cui, come lingua estera, si studiava l’inglese.
Il nostro porticciolo bilingue, mi fece anche notare, non era “het achterhuis”, il “retrocasa” di Anna Frank. Noi non vi ci nascondevamo al mondo esterno; al contrario, cercavamo di essere un porto aperto su tutte le rotte. Né eravamo dei profughi culturali, che avevano tentato di dar vita a una finzione della patrie des Lumières nella economicamente povera, ma umanamente molto ricca, Napoli degli oscuri anni Quaranta. Anche se la metà o poco più dei libri che vi potevo trovare erano in francese, mi fece ancora notare, quel porticciolo bilingue offriva accesso a tutto il pensiero e a tutta la letteratura italiana e straniera e a una grande varietà di contaminazioni culturali.
Non sarebbe stata sorpresa, mi disse, se un giorno io avessi scelto si essere francese. E da come lo disse, mi sembrò – sia sul momento, sia ripensandoci più tardi – che lo ritenesse probabile. In seguito, però, non ritornò mai sull’argomento, chiaramente per non influenzarmi. E io ritenni sempre opportuno rispettare la sua discrezione.
Il mio destino doveva però avere un’idea più precisa su tutto ciò, dato che, quando avevo poco più di vent’anni, mi fece incontrare Raymond Aron e gli suggerì di offrirmi l’occasione di trasferirmi a Parigi. Occasione che ovviamente non mi lasciai sfuggire, incoraggiato dai miei genitori. Fu allora che mia madre, la ragazza di Monteleone Calabro che nel 1919 era riuscita con le sue sole forze a “monter à Paris”, mi citò una memorabile frase dell’abate Galiani, che io conoscevo e ammiravo quasi solo per il suo importante Trattato sulla moneta, pubblicato a Napoli nel 1750.
Questo grande umanista italiano, mi disse mia madre, a partire dal 1759, aveva vissuto a Parigi come Segretario dell’Ambasciata napoletana. Era stato molto ben accettato dagli ambienti colti e aveva potuto assaporare una tolleranza che allora a Napoli non esisteva, tanto da riuscire a pubblicare, anche se in maniera semiclandestina, i suoi anticonformisti Dialoghi sul commercio dei grani. Era diventato celebre nel giro dei philosophes, dove divenne notoria la grande influenza che egli esercitava su Diderot. Voltaire lo aveva definito “un incrocio tra Platone e Molière” e un osservatore terzo, Friedrich Nietzsche, aveva poi scritto di lui che “era molto più profondo di Voltaire”.
Rientrato a Napoli – pur essendo diventato ministro – soffriva molto di non poter più frequentare i salons degli enciclopedisti. Aveva perciò tenuto una fittissima corrispondenza, che fornisce una straordinaria testimonianza su Parigi durante l’età dell’illuminismo. E tra queste lettere[2] ce n’è una, inviata a Mme d’Epinay, in cui l’abate Galiani si lascia andare a una riflessione personale, un commento agrodolce su sé stesso, in cui mia madre si era riconosciuta e in cui – mi disse – riconosceva anche me, ora che stavo per spiccare il volo verso Parigi: “Le piante cambiano di natura cambiando terreno – aveva scritto l’Abate Galiani – e io ero diventato una pianta parigina”.
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Mia madre certamente lo era une plante parisienne. Aveva vissuto a Parigi per 13 anni, dopo esservi giunta attraverso un’ascesa graduale e fortunata, e aveva saputo ben inserirsi in quel particolare ambiente che era l’élite della capitale francese tra la fine della guerra vittoriosa e la grande crisi degli anni Trenta, cioè in una straordinaria fase di modernizzazione e trasformazione. Era la Parigi delle Années folles, una realtà culturale che coinvolgeva anche un gran numero di stranieri, ai quali l’ambiente non chiedeva, per essere accettati, di diventare francesi.
Il mio caso, invece, era diverso. Io non avevo mai studiato il francese. Potrei quasi dire che non lo ho neanche mai imparato. Lo ho parlato e basta, come l’italiano, all’età in cui si incomincia a parlare. La lingua e la cultura francese erano state parte integrante della mia formazione, in maniera molto intensa e in una fase molto precoce della mia vita.
Il caso di mia madre era effettivamente simile a quello dell’abate Galiani. Era una pianta che aveva cambiato natura per aver cambiato terreno. Le mie radici invece avevamo già attecchito profondamente nel terreno francese – così e tanto profondamente quanto nella terra italiana. Cosicché io ero forse meno parigino di lei, ma molto più francese. Me lo rivelarono più tardi vari periodi trascorsi a Bordeaux, per interessi accademici e – forse anche di più – sentimentali. I suoi abitanti mi parvero avere della dolcezza del vivere e dei rapporti tra le persone una visione assai diversa da quella dei parigini, sempre in tensione, sempre di fretta anche quando il tempo non manca, irritabili, isterici e litigiosi; ricchi, insomma, di tutte quelle caratteristiche che la mia amica Cecilia trovava nei “francesi come me”.
Questa diversità tra me e lei mia madre l’aveva percepita prima di me; così come la mia irrealizzabile aspirazione a sentirmi contemporaneamente nei due miei chez moi, a respirare a fondo con entrambi i miei polmoni identitari. Ma fu mio padre che un giorno, mentre parlavamo del mio disagio di fronte alla questione franco-algerina, cercò di aiutarmi a fare luce sulla mia ambiguità. “Mi sembra che tu ti sia messo in un bel pasticcio”, mi disse. “Credo che tu abbia fatto della Francia un ideale, un valore universale, in cui cerchi una guida di fronte ai problemi morali che ti pone la realtà in cui vivi concretamente”. E si mise a frugare nel disordine (forse solo apparente) dei suoi libri. E in un minuto mi mise sotto il naso una pagina della Filosofia della pratica in cui il filosofo napoletano scrive: “L’individuo in tanto è reale in quanto è insieme universale; onde (sotto la pena di restare a mezzo, dimidiatus vir, cioè perdersi nel nulla) non può asserire una forma di sé senza asserire l’altra, ma deve porre l’una esplicita e l’altra implicita, per passare a rendere esplicita anche l’altra”[3].
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Ci fu, in quella fase della mia vita, un solo anno in cui riuscii in qualche modo a realizzare il mio sogno di ubiquità, di essere praticamente allo stesso tempo a Napoli e a Parigi. Fu l’ultimo anno, il 1960-1961, in cui frequentai l’Università di Napoli. Riuscii, senza neanche troppe complicazioni ma con molte notti (più di trenta) spese nella cuccetta di un treno internazionale, a essere contemporaneamente iscritto anche alla Sorbona, al primo anno dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Dove il primo giorno che ci entrai incontrai Jean Gottmann, un grande umanista contemporaneo che ha avuto un’importanza fondamentale nella mia carriera di adulto pensante. Nato in Ucraina ma cresciuto a Montparnasse , dove anche lui, cambiando terreno, aveva cambiato natura, ed era diventato “une plante parisienne”.
Nell’entusiasmo di poter esprimere entrambe le mie anime, non mi resi immediatamente conto del fatto che spostando il baricentro della mia vita dall’Italia alla Francia passavo da un paese cui la sconfitta aveva risolto alcuni problemi, in particolare quello dell’impero coloniale, a un paese per il quale questi problemi si sarebbero trascinati per altri 17 anni. Anni di guerre troppo costose per la stremata Francia postbellica, ma soprattutto guerre inevitabilmente destinate a concludersi con un ripiegamento e un abbandono. Nel caso dell’Indocina, addirittura con una bruciante sconfitta militare.
C’era insomma un’asincronia storica tra Francia e Italia, come peraltro anche tra Francia e Germania, che pretendeva che il passato non esistesse. Questa asincronia rendeva – ho almeno contribuiva a rendere – assai difficile l’unificazione europea e ha fatto sì che l’idea si sclerotizzasse e si burocratizzasse. Così come c’è oggi una discrasia tra la Francia e l’Italia da un lato e la Germania dall’altro, dopo che la guerra fredda è terminata con la sconfitta dell’Urss ma senza che ci fosse un vero vincitore. Sicché le spoglie di quella vittoria sono rimaste sul campo, dove sono state raccattate da Berlino creando uno squilibrio cui la Francia risponde con un nuovo attivismo nell’area geopolitica della francofonia, di cui ovviamente fanno parte non solo le ex colonie francesi ma anche quelle belghe.
Questi differenti stadi del dopoguerra in cui vivevano la società italiana e quella francese mi resero ovviamente assai difficile tenere un atteggiamento politico univoco. In quegli anni, la simpatia e l’ammirazione della mia anima francese per de Gaulle derivavano dall’impegno che egli metteva nel risolvere per la Francia un problema, quello della decolonizzazione, che l’Italia non aveva più. Ma questa simpatia e questa ammirazione mi davano – come avrebbe detto Ungaretti – il supplizio di non sentirmi in armonia con i miei amici italiani, che vedevano con sospetto la monarchia elettiva instaurata dalla Quinta Repubblica e cercavano – illudendosi, come divenne chiaro più tardi – di costruire un ordine diverso, sovranazionale, in Europa occidentale. Oppure, come provò in seguito a fare Bettino Craxi, tentando di creare uno spazio politico di ispirazione liberalsocialista tra le forze che facevano riferimento a due blocchi entrambi in declino. A Occidente per l’emergere del neoliberismo della Thatcher e di Reagan, a Oriente per la putrefazione brezneviana resa manifesta dalla tragedia afgana.
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Ma il 1960-61 fu anche un anno di dure e formative esperienze. Perché c’era un’altra differenza tra la mia immersione parigina e quella di mia madre. Parigi non era più, quando ne feci la mia base, quella scintillante e festosa metropoli che aveva accolto e trasformato per sempre la coraggiosa e inarrestabile ragazza italiana. Anzi era una Parigi terribile, teatro di una sanguinosa guerra civile, in un momento in cui gli insorti algerini, giunti al punto massimo del loro sforzo di liberazione, avevano trasferito en metropole la loro insurrezione. Puntando sui trecentomila immigrati che lavoravano in Francia – e che l’Fln, la più radicale delle organizzazioni indipendentistiche, controllava con pugno di ferro – gli insorti avevano capovolto la fictio colonialista secondo la quale l’Algeria era parte integrante del territorio nazionale francese e avevano dichiarato l’Esagono come la settima wilaya, la settima provincia dell’Algeria. Quindi, la settima area di operazioni militari contro l’occupante.
Trovarsi sul campo della guerre en metropole significava doversi abituare all’idea di poter essere ad ogni momento coinvolto in una scena di odio e di morte. Come francese sentivo profondamente la straziante lacerazione morale, il dilemma in cui la Francia si trovava. E certo non potevo restare indifferente quando mi fu dato di assistere in prima persona a una feroce esecuzione; o quando uscendo dal metrò, alla Gare du Nord, vidi la notte trasformarsi in un infernale tramonto di fiamme: gli algerini avevano fatto saltare in aria un deposito di combustibile in piena Parigi. La polizia faceva retate di arabi a casaccio, anche in pieno Quartiere Latino, con ragazzi che gridavano verso noi spettatori impotenti: “On m’arrête parce que je suis Tunisien!”. Non perché speravano che li aiutassimo, ma perché fossimo testimoni dell’abuso che subivano, puntando il dito contro una Francia che tradiva i principi che ella stessa aveva insegnato a tutta l’Europa.
Tutto questo feriva profondamente la mia idea della Francia come patria delle libertà. Certo, la scuola francese che avevo frequentato era una scuola di monache, che non ci parlavano molto degli ideali del 1789. Ma la scuola, come il convento, portava il nome di Giovanna d’Arco, simbolo come pochi della lotta di liberazione dei francesi contro il dominio straniero. La stessa liberazione per la quale in quel momento si battevano gli algerini.
Naturalmente, le monache francesi, molte delle quali avevano abbandonato il loro paese per la durezza del suo laicismo, non avevano potuto impedire che io sapessi di un’altra Francia, di quella dei diritti dell’uomo che avevo conosciuto grazie alle mie letture. E di cui, per il tramite mia madre, la cui esperienza parigina aveva avuto luogo negli anni successivi alla rivincita ottenuta nel 1918 contro l’imperialismo prussiano, mi era giunta l’eco del trionfalismo e dell’esaltazione con i quali la fortemente massonica troisieme République celebrava la grandeur de la Révolution. E la celebrava anche come dura condanna del partito conservatore e cattolico; che era poi la fazione politica che aveva sostenuto Napoleone III nel suo duplice attentato contro l’altra mia patria, l’Italia: dapprima col vile intervento contro la Repubblica Romana, poi col tradimento dell’alleanza stretta col Piemonte nella seconda guerra d’indipendenza.
Le ragioni “geopolitiche” che vengono talora avanzate per spiegare quel tradimento sono perfettamente comprensibili. Anzi, è quello uno dei rari casi in cui la geopolitica si dimostra molto razionale. La Francia, da quando è nata come pays de royauté, rompendo con il principio imperiale dominante in tutta l’Europa medioevale, è sempre stata un paese assediato.
Al di là di uno stretto braccio di mare, l’Inghilterra – anche dopo essere stata sconfitta a la Rochelle, suo ultimo punto di forza in territorio francese – si è sempre posta come un’implacabile avversaria e ha di fatto impedito per secoli che la Francia traesse beneficio sostanziale dal lungo tratto costiero e dai porti che si affacciano sull’Oceano Atlantico. A Nord, nei Paesi Bassi, e a Est, nella valle del Reno, il potere imperiale la stringeva, anche se disturbato dalle discordie tra cattolici e protestanti almeno finché il suo centro fu Vienna, ma molto di meno da quando questo si è spostato a Berlino. Al di là dei Pirenei, dopo l’espulsione dei musulmani, la scoperta e la spartizione del nuovo mondo si era formata una rabbiosa entità politica e militare vista come estremamente preoccupante da chi, a Parigi (non meno che a Milano e a Napoli) ricordava il conservatorismo e la durezza degli iberici. Per rendere meno ostili i quali non bastò infatti mettere un Borbone sul trono di Madrid, né le grandi riforme napoleoniche.
Vittima di questa sensazione di accerchiamento e di strangolamento, non è incomprensibile – da un punto di vista geopolitico – che la Francia abbia sempre visto come un pericolo la nascita, al di là delle Alpi, di uno Stato unitario più popoloso, molto più ricco e infinitamente più sofisticato dei regni iberici. Se ne erano accorti anche gli inglesi, che infatti, non a caso, dopo il tradimento di Napoleon le petit ai danni del Piemonte ne approfittarono favorendo diplomaticamente lo sbarco dei Mille a Marsala, con cui divenne realtà proprio quello che i francesi più temevano: l’unità della penisola italiana in un’unica entità statuale, in uno Stato nazionale. Che per certi aspetti sembrano ancora in questo secolo – in particolare dopo quel 2011 in cui iniziative partire dall’esterno spazzarono via quasi contemporaneamente i governi sia dell’Italia sia della Libia – considerare come una realtà fastidiosa che avrebbe potuto essere evitata. Uno Stato di fatto che forse potrebbe essere anche rimesso in discussione, almeno a giudicare dall’interesse che ha suscitato nella stampa francese, qualche anno fa, l’apparire del separatismo padano e dagli attenti dibattiti ad esso dedicati in alcune prestigiose istituzioni francesi di studi politici.
Lo Stato nazionale che – tra aiuto e tradimento – Napoleone III contribuì controvoglia a far nascere era però fondato su troppe ambiguità. Non senza ragione Mazzini, lo ritenne “vittima di una tripla mutilazione rispetto agli ideali del 1848: mutilazione dell’iniziativa nazionale a vantaggio del ricorso all’intervento estero (quello di Napoleone III), mutilazione dell’iniziativa popolare a vantaggio di un’azione condotta dal governo e dalla monarchia e infine mutilazione della prospettiva di un’Europa unita a vantaggio della contrapposizione tra Stati nazionali[4]. Molti italiani, di diverse generazioni, si sono chiesti se forse non sia proprio alle mutilazioni che allora furono imposte allo Stato nazionale italiano che si dovrebbe guardare per capire meglio tutto il negativo che c’è stato nei rapporti tra Italia e Francia nei decenni successivi.
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Fu soprattutto la terza mutilazione che ha fatto sì che tra il 1870 ed il 1945 l’Italia creata dal conte di Cavour e da Napoleone III sia stata monarchica e moderata, per poi divenire, negli ultimissimi anni dell’Ottocento e per reazione alla spinta e alle aspirazioni popolari al socialismo, decisamente reazionaria, tanto da sparare con i cannoni caricati a mitraglia contro quello stesso popolo di Milano che con le Cinque giornate aveva dato il via alla rivoluzione nazionale. E sullo scacchiere internazionale al punto di allearsi con il mondo germanico, che i casi della storia avevano reso suo naturale rivale. Sempre a causa dell’abbandono dell’europeismo mazziniano era stata in quei tre quarti di secolo un soggetto internazionale che puntava soprattutto sulla forza militare per farsi largo come potenza revisionistica dell’ordine europeo, non differentemente dalla Prussia sua coeva, e animata da ambizioni colonialistiche tanto più destabilizzanti in quanto più tardive.
La Francia di Napoleone III aveva contribuito non poco a che l’Italia fosse in quei tre quarti di secolo un animale politico assai diverso da quello che essa stessa sarebbe stata all’indomani della resistenza, della rivoluzione costituzionale repubblicana, del boom economico e sociale degli anni 1948-1958 e del miracolo culturale e consumistico dei primi anni Sessanta. E che da un punto di vista morale e politico era passata dall’ideale nazionale, screditato e reso più difficilmente spendibile dall’uso orgiastico e menzognero che ne aveva fatto il fascismo, a un europeismo sincero quanto ingenuo, assai diverso da quello utilitaristico e di maniera che caratterizzava (come oggi si vede chiaramente) i nostri partner tedeschi e francesi. Che aveva insomma acquisto una temperie morale che rendeva possibile per un ragazzo che si affacciava in quegli anni all’età della ragione l’ambizione di avere due anime[5].
Se la Francia ci vedeva, e un po’ ci vede ancora, come un paese aggressore, l’Italia repubblicana, e soprattutto il giro mazziniano e socialista in cui vivevo, non avevano – dal canto loro – perdonato alla Francia alcune scelte che dal punto di vista italiano erano state molto importanti. In primo luogo, i finanziamenti francesi a Mussolini perché rompesse col socialismo e si spostasse dal lato degli interventisti, contribuendo così a gettare l’Italia in un conflitto per il quale non era né armata né politicamente pronta. E da cui, contrariamente a quanto ripetuto senza fine dalla narrazione fascista e post-bellica in generale, il popolo italiano uscì non già più unificato dal sacrificio comune di uomini di tutte le regioni bensì diviso in due partiti che non potevano che scontrarsi in quella che uno di essi sperava fosse “la lutte finale”. Il partito di quelli che nell’orrore delle trincee erano giunti alla conclusione che i regimi europei, tutti i regimi europei, che avevano contribuito a far scivolare il continente in un tale demenziale e disumano massacro andavano spazzati via assieme agli equilibri socioeconomici su cui essi si reggevano, per far spazio ad una palingenesi sociale e morale, e il partito di chi la guerra l’aveva fatta soprattutto dietro a una scrivania o dalle redazioni dei giornali, acclamato dalla “generazione del ‘99” che della guerra aveva conosciuto solo la propaganda e le ultime fasi, imbevendosi di retorica patriottarda. Anche se non ciecamente e ferocemente revanscista, come accadde ai coetanei tedeschi.
È del tutto logico, e assai poco sorprendente, che proprio dall’Italia fascista, figlia di quella catastrofe in cui i finanziamenti francesi avevano contribuito a coinvolgere la “sorella latina”, sia poi venuto il vile colpo di pugnale alla schiena, quando al rozzo opportunismo mussoliniano parve che fosse venuto il momento di correre come Don Abbondio in soccorso del più forte, gettando per la seconda volta nella sua vita l’Italia nella mortale fornace del conflitto. E se di quella astuzia assassina tocca innegabilmente anche a me, come italiano, portare la vergogna, come francese non posso neanche perdonarmi quel po’ di colpa (non molta, per essere onesti, certamente molto meno dell’Inghilterra) che la Francia ha nell’aver spinto anche il fragile Regno d’Italia nella guerra civile europea.
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Ai miei occhi, questa logica geopolitica aveva tuttavia poco valore, perché ho sempre visto nella storia prove su prove del fatto che le idee, specie quando si tramutano in ideologie, contano più degli oceani e delle catene montuose; prove irrefutabili del fatto che un popolo mosso dalla convinzione di avere una cultura e un destino comune, di condividere un passato la cui memoria è degna di essere trasmessa alle generazioni che verranno, non può essere contenuto, fermato o deviato da nessun ostacolo geografico, fisico, materiale. E che era per me possibile sentirmi italiano e francese allo stesso tempo, e in definitiva europeo, non solo in quanto consideravo irrilevante per la mia analisi collocarmi da un punto di vista sito al di qua o al di là delle Alpi, ma perché sentivo come miei gli ideali che avevano portato la Francia alla grande esplosione rivoluzionaria e – par des voies secrètes – a dare all’Italia il nobile sacrificio degli insorti mazziniani.
Il mio essere al tempo stesso italiano e francese era insomma possibile solo al prezzo di avere un forte impegno politico che avesse valore in ciascuno dei due paesi. In quegli anni decisivi non era per me possibile dirmi francese se non condividendo le idee, e in piccolissima misura anche gli impegni, di quei francesi che erano a favore dell’indipendenza all’Algeria. E sostenendo la linea politica che mi sembrava di intuire dalle mosse di de Gaulle; al costo di farmi accusare di essere più francese che italiano dai miei amici di sinistra al di qua delle Alpi. I quali troppo spesso, ancora sotto shock per la dura esperienza della sconfitta, vedevano in lui solo il vincitore che nel 1945 aveva tentato di strappare la Valle d’Aosta, se non addirittura di più[6], alla nostra debellata e fragile patria italiana.
Ho visto de Gaulle di persona solo in due occasioni: una volta – grazie a Marie-France Garaud[7], una grande figura femminile che purtroppo non ha oggi eredi politici – a un incontro con dei giornalisti, e un’altra volta, all’ambasciata svedese. In entrambe ho potuto ascoltarlo a lungo e osservarlo molto da vicino. Nonostante il suo aspetto sorprendentemente bonario mi ispirò immediatamente fiducia e ammirazione. E poi mi era chiaro come fin dal 1958 egli avesse capito che l’ora dell’indipendenza algerina era ormai giunta. Il leader politico che avrebbe portato la Francia fuori dalla trappola coloniale in cui essa era impantanata era dunque lo stesso uomo che nel 1945 aveva inviato le truppe francesi in Indocina, in un tentativo non solo di recuperarla alla sovranità francese ma anche nella speranza di trasformarne l’economia in senso industriale profittando della distruzione del Giappone e nel quadro di un ripensamento generale dei rapporti tra colonie e madrepatria[8]: un’impresa estremamente ambiziosa ma forse politicamente non impossibile se fosse stata effettuata prima che nel 1949 la definitiva vittoria di Mao sui nazionalisti del Kuomintang risucchiasse tutto il Sudest asiatico nella logica della guerra fredda.
Ora de Gaulle era stato chiamato al potere per la seconda volta nella sua vita per tentare un’impresa ancora più ambiziosa. E ciò dopo ben 12 lunghi anni di appena velata emarginazione ed esilio interno, quella che egli chiamerà “la traversata del deserto”. Vi era stato chiamato da forze che speravano egli fosse in grado di reprimere l’insurrezione indipendentista in Algeria e che solo più tardi si accorsero di aver invece affidato il paese a un patriota che non condivideva le loro idee su ciò che era degno della Francia e nel suo interesse nazionale e che non aveva mai preso impegni nel senso di proseguire la lotta agli indipendentisti. Ma a chi seguiva le questioni politiche francesi e le sentiva come proprie non poteva essere sfuggito il senso vero del discorso pronunciato il 4 giugno 1958 ad Algeri dal leader della France libre tornato al potere nell’ora più buia della Quarta Repubblica.
Contrariamente alle speranze di molti ambienti militari e di destra, ad Algeri, di fronte ad una folla che voleva essere rassicurata sulla continuità del privilegio coloniale, egli garantì invece “una patria a coloro che potevano dubitare di averne una” e sottolineò la necessità di “riconoscere la dignità a coloro i quali essa veniva contestata”. Neanche con le sue prime quattro parole – “je vous ai compris” – egli aveva preso alcun impegno a continuare nella repressione degli insorti algerini. Non soltanto, come qualcuno ha suggerito forse con intento banalizzante e dissacratorio, perché quella frase si può anche interpretare come “Ho capito! Basta urlare! Non sono sordo”, ma perché egli immediatamente dopo cominciò a elaborare i dettagli di un “rinnovamento” da attuarsi senza lacerazioni istituzionali, senza rottura nella continuità dello Stato francese, bensì nel quadro della nuova Costituzione della Cinquième République.
Sul Forum, di Algeri il Generale si era trovato di fronte a una enorme folla di pieds noirs che urlavano “Algérie française!”. Il cui entusiasmo andò però rapidamente raffreddandosi man mano che egli pronunciava il suo breve, ma accuratamente preparato, discorso. Già alla seconda frase promise un “rinnovamento nella fraternità”, precisando che “in Algeria c’è una sola categoria di abitanti”. Poi ripeté per ben tre volte che il voto previsto entro tre mesi si “sarebbe svolto con un unico collegio”. Il che significava porre termine alla principale regola discriminatoria a danno della popolazione musulmana, per la quale, sino ad allora, era previsto un collegio elettorale che mandava all’Assemblée Nationale lo stesso numero di deputati eletto nel collegio dei non musulmani, anche se i primi erano nove volte più numerosi dei secondi. Poi tese la mano agli insorti, definendoli come “quelli che, per disperazione, hanno creduto di dover condurre su questo suolo una lotta alla quale io riconosco di essere coraggiosa, perché il coraggio non manca sulla terra d’Algeria!”. E concluse aprendo loro “le porte alla riconciliazione” con una Francia “grande e generosa”.
Chi era un po’ addentro alle sale riservate poteva avere molte conferme dirette e indirette del fatto che non si trattasse di promesse come quelle che si imputano ai marinai e che sono ancora più frequenti tra i politici. Soprattutto, si sapeva quale era stato, già nel 1958, il dialogo tra de Gaulle e Paul Delouvrier, grand commis della migliore tradizione francese che alla fine di quell’anno venne nominato, praticamente con pieni poteri, a rappresentare il governo di Parigi in Algeria.
Delouvrier era fortemente europeista e perciò ritenuto dai più assai diverso da de Gaulle. Quando questi gli offrì l’incarico ad Algeri, dapprima cercò delle scuse per non accettare. Poi, messo alle strette, disse sinceramente che non credeva all’Algérie française e che la sua personale convinzione era che l’Algeria avrebbe dovuto essere indipendente. De Gaulle lo lasciò parlare, esprimere coraggiosamente il suo dissenso con tutti quelli che avevano portato il generale al potere. E quando Delouvrier disse che le sue idee gli sembravano in contraddizione con l’incarico che gli veniva offerto, de Gaulle lo guardò dritto in faccia come per significare: Écoutez-moi bien, Monsieur Delouvrier. E disse: “Ce n’est pas contradictoire”.
In quelle parole c’era la mia Francia. La Francia che meritava il mio impegno politico e di cui potevo andare fiero.
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Era una Francia che aveva ritrovato al vertice una personalità degna del suo passato e garante per il suo futuro, ma aveva ancora un disperato bisogno di liberarsi di tutto il veleno che il periodo coloniale, e ancor più i 17 anni delle guerre di decolonizzazione, avevano immesso nella società. Operazione che chiaramente necessitava dell’impegno quotidiano di ogni francese come me; un forte impegno civile, perché vi accadevano anche molte cose inaccettabili che dipendevano non da scelte pubbliche ma da un “clima” culturale, da un razzismo “ambientale”.
Come ciò di cui fui testimone in un ristorantino orientale in rue Monsieur le Prince, dove un vietnamita sbucato improvvisamente dalla cucina ne uccise a coltellate un altro, rimasto bloccato tra il suo tavolo e tre donne di mezz’età, anch’esse vietnamite, che gli impedirono ogni via di fuga, mentre due di esse sembravano voler minimizzare ai nostri occhi quello che stava accadendo, una lamentando “un coup de folie” e l’altra addirittura ripetendo più volte con tono amorevole “c’est toute une famille, c’est toute une famille…”. E senza che la polizia, arrivata con comodo sul posto, si curasse neanche di chiedere le generalità a me e alla mia commensale, che pure eravamo stati testimoni oculari, “parce qu’on ne mélange pas des blancs à des affaires comme ça”.
Ne rimasi indignato; almeno finché, mentre arrivavo a casa mia, non mi parve di vedere per la terza volta di fila, nell’arco di una decina di minuti, un bambino orientale, sempre lo stesso. Ed ebbi la sensazione che mi avesse seguito. «Forse quel gendarme sapeva il fatto suo – pensai – forse stava garantendo la mia sicurezza». Comunque, episodi di questa gravità, o anche peggiori, non potevano che rafforzare il mio impegno anticolonialista e il mio sostegno per quel presidente che stava cercando di separare il destino della Francia da quello del Nordafrica. Lo dovevo, quel sostegno, alla mia amata patria francese, così come dovevo alla mia patria italiana, alla pauperrima e dolorante Napoli, l’impegno rivoluzionario che mi aveva spinto nella gioventù comunista: anche se dopo il 1956 – è vero – avevo dovuto correggere il tiro. Perché, pur continuando a dichiararmi marxista per quel che riguardava l’analisi della realtà storico-politica, avevo capito che il Pci era prigioniero di logiche internazionali più grandi di lui, mentre il piccolissimo Partito repubblicano poteva paradossalmente essere uno strumento più utile per il progresso della società italiana. Certamente lo fu, almeno fino alla fase tragica del compromesso storico e degli anni di piombo.
Ma ancor più chiaramente avevo capito che il gruppo di Nord e Sud, col suo convinto impegno nella lotta per il riscatto del Mezzogiorno, poteva essere più utile a cambiare le cose che non l’azione del Pci. Certo, anche i liberal italiani, in particolare i repubblicani, pur sotto la guida di una personalità come La Malfa, fecero quelli che a me apparvero, e che continuo a considerare, come degli errori. In particolare quello di cercare un improbabile “asse” anglo-italiano in funzione anti-de Gaulle; asse che ovviamente non si concretizzò mai e di cui non si parlò più dopo che la “grande quercia” venne abbattuta. Di de Gaulle si criticava soprattutto il ruolo preminente – nella politica e nella storia – da lui attribuito allo Stato nazionale[9]. E ancor più, ovviamente, si criticava la sua idea dell’Europa delle nazioni.
Eppure, era possibile dubitare del fatto che egli fosse veramente antieuropeista, anche perché è possibile dubitare del fatto che molti di coloro che si dichiaravano (e si dichiarano) europeisti meritino davvero tale nome e sospettare che non siano in realtà che pacifisti votati a distruggere l’idea nazionale, ritenendola la principale causa delle guerre; oppure che essi siano difensori delle minoranze, che giustamente vedono nel sentimento nazionale – specie se spinto all’eccesso, come troppo spesso capita – un eterno pericolo per i “diversi” e per i dissenzienti. Adenauer, Schuman e De Gasperi non pensavano solo alle minoranze ebraiche, che in Francia avevano sofferto non meno che in Italia, ma anche e soprattutto ai cattolici, vittime in Germania del Kulturkampf protestante, in Francia del laicismo che aveva trovato il suo culmine nella Legge di separazione tra Stato e Chiese del 1905 e in Italia, dove erano senza voce non tanto per l’egemonia massonica quanto per il non expedit vaticano del 1874.
Altri “europeisti” ancora – e lo si vide quando si cercò di creare, con la Ced, un Esercito che in assenza di un’Europa politica non poteva essere che una formazione di truppe ausiliarie degli americani – erano semplicemente fautori di un’alleanza di stati dell’Europa occidentale schierata a fianco degli Usa nello scontro con l’Urss. Si poteva infine sin da allora dubitare dell’europeismo di tutti quelli che, più tardi, hanno spinto ad allargare sempre di più il numero e la varietà degli Stati membri, per fare dell’Ue un building bloc della globalizzazione anziché uno stumbling bloc, come era parso possibile dopo la creazione di una moneta in grado di rivaleggiare, almeno per alcune funzioni, col dollaro.
Ciò che mi consentiva di conciliare la mia simpatia, pur se marcata da alti e bassi, per de Gaulle, con la mia adesione anche formale, e con il mio sostanziale consenso politico, al Pri – in cui peraltro esisteva una corrente, quella di Randolfo Pacciardi[10], uno dei grandi dell’antifascismo italiano, che in parte ispirò il personaggio interpretato da Humphrey Bogart in Casablanca, ed era apertamente favorevole al presidente francese e alle sue idee – era che credevo di aver intuito l’esistenza di un europeismo gollista assai diverso da quelli dei tanti europeisti retorici e ancora di più da quello delle istituzioni di Bruxelles. Questa visione mi sembrava partire dall’inderogabilità del fatto nazionale e dalla convinzione che esso si sarebbe di nuovo manifestato una volta scomparse, o fortemente attenuate, le ragioni che avevano spinto i tre paesi sconfitti nella seconda guerra mondiale a unirsi in una coalizione. Perché era chiaro che neanche a de Gaulle sfuggiva il fatto che la Francia era una nazione vincitrice dalla seconda guerra mondiale solo da un punto di vista politico e diplomatico; anche se quel capolavoro politico e diplomatico era stato proprio lui a renderlo possibile.
Quando parlava dell’Europa, che non a caso secondo lui avrebbe dovuto andare dall’Atlantico agli Urali[11], egli poneva di fatto il problema di un equilibrio assai complesso e delicato che si sarebbe dovuto creare tra le nazioni all’interno di qualsiasi forma di unità europea, che altrimenti sarebbe stata a rischio di degenerare in un tentativo imperiale[12]. Oppure si sarebbe dovuta violentemente scontrare con la realtà del mondo postbellico. Egli stesso lo confermò, quando disse che l’unità europea sarebbe forse stata possibile “pendant le court passage de Kennedy à la Maison Blanche”: una frase dalle molte implicazioni su cui riflettere.
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La Francia dell’era de Gaulle è dunque quella in cui ho vissuto più continuativamente, dal 1961 al 1968, e anche quella alla quale ho più fortemente sentito di appartenere – ovviamente con periodiche fasi critiche. Fu anche la Francia in cui sono stato più vicino a diventare francese di fatto, se non anche dal punto di vista giuridico. Anche perché durante una sua visita a Parigi mio padre, avendo notato che mi occupavo e scrivevo sempre di più sulle relazioni internazionali, mi fece un’osservazione molto sensata. “Se continui su questa strada – mi disse – tieni conto che in Italia non c’è molto spazio per chi si occupa di relazioni internazionali. Non mi dirai che non ti sei accorto che l’Italia non ha una politica estera, che nulla di ciò che l’Italia fa in questo campo è veramente italiano. Se credi di poter dare un contributo originale forse è meglio che tu lo dia qui, in Francia. E alla Francia, che mi pare un terreno più ricettivo e meglio in grado di trarne frutto.”
Anche in questa prospettiva, per otto anni mi dedicai a osservare da vicino la Francia degli anni Sessanta, che pur avendo ormai superato la critica fase della decolonizzazione (1945-1962, più di un quindicennio), non era priva problemi. Una volta che Gino Martinoli, il fondatore del Censis, mi incaricò significativamente di uno studio comparativo tra la Calabria e la Bretagna, dove era ancora presente il veleno del separatismo incoraggiato dai Tedeschi durante l’occupazione, e le cui condizioni economiche rendevano addirittura evidente che Parigi non avrebbe fatto male a ispirarsi alla esperienza italiana della Cassa del Mezzogiorno.
Naturalmente lavoravo soprattutto alla mia tesi, ero inserito nel mondo accademico e avevo modo di valutare appieno la rigidità sociale del modello educativo. Lo stesso de Gaulle l’aveva avvertita sin dal 1945. E infatti fin dal breve periodo in cui alla fine del conflitto era stato capo del governo aveva tentato, con la creazione dell’Ena e dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes en Sciences Sociales, di spezzare il privilegio ereditario nell’accesso agli alti ranghi dello Stato, garantito dagli studi giuridici e dalla stessa Ecole Libre d’Etudes Politiques, la celebre Sciences Po. Nei dodici anni in cui egli fu lontano dal potere le sue riforme non vennero però veramente completate e dopo la sua scomparsa sono state anche parzialmente disfatte.
Ebbi così occasione di scrivere ripetutamente sulla condizione della gioventù francese – soprattutto degli studenti[13], che mi parvero già nel 1964 essere sul punto di una ribellione[14] – per ottenere poche cose essenziali, borse di studio meno avare, più residenze e mense universitarie, aule e biblioteche meno affollate. Ma erano studenti veri, che andavano all’università per trovare una collocazione decente nella società; assai diversi dai ragazzi un po’ viziati e desiderosi di fare politica che qualche anno dopo scesero dai quartieri bene gridando “vogliamo tutto!”.
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Fu quella un’ondata che nel giro di pochi mesi sconvolse la società francese – e che indirettamente avrebbe portato a un grande allargamento nell’accesso all’educazione senza vero scadimento della qualità, come invece è accaduto in Italia. D’altra parte, a un osservatore italiano non poteva sfuggire che il maggio parigino assomigliava come una goccia d’acqua al meno conosciuto, ma assai significativo, “marzo romano”. Il 1° marzo di quello stesso anno a Valle Giulia, a due passi dai Parioli, si erano avuti degli incidenti tra la polizia da un lato e dall’altro un variegato gruppo di studenti curiosamente appartenenti a parti politiche che, sulla scena italiana, erano tra di loro opposte. Tanto che Pier Paolo Pasolini, guardando soprattutto alla loro classe sociale, dichiarò di odiarli e li chiamò “prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati”, prendendo le difese dei poliziotti.
Forte della lezione appena appresa dagli eventi della mia patria italiana, la crisi del “maggio francese” mi parve subito non corrispondesse alle necessità della Francia. Essa chiaramente traeva ispirazione alle agitazioni in corso nelle università americane e provocò in me una reazione non dissimile da quella che la “rivoluzione di Berkeley” aveva suscitato in Norman Podhoretz, e cioè che “gli studenti cercavano di dire a ciascuno di noi qualsiasi cosa questi volesse sentire”[15].
Ma le ragioni sociopolitiche della sollevazione nei campus di oltreoceano erano pressoché inimmaginabili nella pacificata Francia gaullista. Perché a nessun osservatore della realtà internazionale appena un po’ attento poteva sfuggire che l’élite sociale americana (non solo gli studenti, anche le loro famiglie) si era sollevata come un sol uomo solo quando Nixon, pressato dal cattivo andamento della guerra vietnamita, aveva commesso l’errore di far rientrare nel draft, la chiamata obbligatoria alle armi, anche gli studenti universitari, sino ad allora di fatto esenti da quest’obbligo e aveva praticamente reso impraticabile anche la scappatoia per cui una recluta poteva farsi sostituire da un suo coetaneo presentato come volontario; regola che aveva creato un fiorente mercato e che ha fatto sì che, nel complesso, gli americani che hanno combattuto in Vietnam siano stati soprattutto afroamericani.
Estraneo com’era alla realtà francese, il ‘68 mi diede rapidamente la sensazione di essere destinato a cambiare in maniera irriconoscibile i caratteri della Francia che amavo, a cancellare la mia idea della Francia. Perché dietro “l’imagination au pouvoir” c’era un obiettivo preciso: quello di abbattere la “grande quercia”, il presidente de Gaulle; e ciò era voluto da strati sociali molto alti e ultraconservatori, che si mascheravano da progressisti. Il tutto ovviamente avvolto in un mare di slogan e di luoghi comuni pseudorivoluzionari prontamente offerti da una casta “intellettuale” che – anche se cercava di rassomigliarvi – non aveva più niente a che fare col mondo spumeggiante e creativo che mia madre aveva conosciuto e di cui ormai non esisteva più che una pallida eco.
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Quella non era la mia Parigi, né la mia Francia. Perciò ne fuggii. E mi rifugiai dapprima a Roma, dove immediatamente provocai, per il mio giudizio favorevole su de Gaulle l’odio più feroce della componente settaria del Pri. Un odio che dura ancora oggi, ma che mi fece capire qualcosa che pochi sapevano sulle affiliazioni segrete di Pompidou e che per poco non riuscì a guastare il mio rapporto con Francesco Compagna, subito ristabilito grazie a Ugo La Malfa. Poi a Siena, dove cominciai a insegnare abitando – of all places – nella Certosa di Pontignano, che apparteneva allora all’Università.
Quando l’anno dopo mi fu offerto anche un insegnamento a Firenze, alla facoltà di Scienze politiche, finii per sostituire al mio pendolarismo franco-italiano un pendolarismo lungo i 62 chilometri della via Chiantigiana. Quanto di più italiano ci potesse essere! E che corrispondeva alla scelta che a quel punto era venuta quasi da sé. La scelta opposta a quella che ai miei genitori era sembrata la più probabile e la più opportuna: una scelta per l’Italia, anche se intervallata da lunghi soggiorni americani.
Dopo il 1968 non solo l’ipotesi di una mia scelta per la Francia non si poneva quasi più, ma anche l’ambivalenza mi parve diventata più difficile. Fu l’unico periodo significativo in cui fui poco presente a Parigi. Come c’era da aspettarsi, però, siccome il primo amore non si scorda mai– o, se si preferisce, siccome l’assassino torna sempre sul luogo del delitto – Parigi rientrò rapidamente nel mio orizzonte. Non solo cercai, nelle prime elezioni presidenziali dopo la caduta di de Gaulle, di impegnarmi per il candidato socialista Gaston Defferre, cui – da anticolonialista – riconoscevo il merito di aver lavorato molto per rendere possibile l’indipendenza dei territori francesi in Africa nera e che per questo avevo sempre visto come un possibile erede socialista di de Gaulle. Ma anche dopo alcuni anni tra Siena e Firenze punteggiati da periodi al Mit, in Afghanistan e in Sudan mi ritrovai di nuovo a Parigi.
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La crisi del petrolio mi aveva sorpreso a Boston, dove il Mit offriva un osservatorio privilegiato per comprenderne sia gli aspetti tecnici sia quelli economici. Ma quella stessa crisi mi riportò subito dopo alle sale dell’Avenue Kleber, le stesse in cui era stata negoziata la pace in Indocina e dove, questa volta, si svolgeva il cosiddetto “Dialogo Nord-Sud”, il grande negoziato con il quale, dopo la fase più violenta della crisi, si cercò di rendere meno conflittuali le relazioni economiche internazionali.
In quell’occasione, però, ero a Parigi in una diversa posizione e con un diverso spirito. Non ero più uno studente italo-francese che cercava di superare la contraddittorietà nel suo impegno politico in entrambi i paesi. In quel negoziato, infatti, io rappresentavo l’Italia – che cercavo di difendere al meglio delle mie capacità, tanto che a un certo punto mi fu persino “consigliato” di andarci un po’ più piano – ed ero proprio nel Comitato che discuteva il problema delle materie prime. Potevo insomma dedicare tutte le mie forze all’Italia anche perché la Francia, assai ben rappresentata e per di più paese ospitante, non aveva certo bisogno di me.
Erano gli anni di Giscard d’Estaing, arrivato all’Eliseo nel pieno della prima crisi del petrolio, il cui prezzo era passato improvvisamente da tre a 12 dollari il barile e successivamente – nel 1979, a causa della rivoluzione iraniana – al di sopra dei 30 dollari. La diplomazia francese era attivissima nel Mediterraneo, fortemente sbilanciata a favore dei paesi arabi tanto da vendere a Saddam Hussein un reattore nucleare. Il presidente francese ostentava una volgare e aperta non considerazione – o peggio – nei confronti dell’Italia, semiparalizzata in quegli “anni di piombo”. A un vertice a Venezia si comportò in maniera così arrogante e scortese da farmi desiderare che la mia amica Cecilia fosse lì a tiragli il collo.
Si tratta in realtà di un atteggiamento ricorrente, che si è anzi intensificato in tempi recenti. “Entre les soeurs latines, aujourd’hui, la température n’est plus au beau fixe – ha scritto di recente Jean-Claude Casanova – encore que les déficits publics des deux pays divergent moins qu’on ne pouvait le craindre il y a un an. À l’égard des Italiens les Français témoignent parfois d’un sentiment incompréhensible de supériorité puisque, comme l’a dit le général de Gaulle, ils doivent à l’Italie leur langue, leur art et leur religion. Et les Italiens, de leur côté, depuis Machiavel, manifestent souvent de l’ironie à l’égard de la politique transalpine”[16].
Giscard, tra l’altro, cercava di ostacolare in tutti i modi il negoziato tra l’Italia e l’Algeria per un gasdotto che attraversando la Tunisia giungesse fino in Sicilia. Gasdotto che venne poi effettivamente costruito fra il 1978 e il 1983. Ciò non servi a rendere meno difficili i rapporti, tanto che, quando il 27 giugno 1980 nel cielo di Ustica un missile abbatté un aereo di linea italiano ammazzando 81 persone i francesi si trovarono a condividere con gli americani il sospetto di essere dietro a questo crimine, che – si disse – era il risultato di una bavure francese nel quadro di un’operazione che avrebbe dovuto sgombrare il campo dal colonnello Gheddafi.
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Il mio impegno piacque dunque poco alla mia parte d’anima che apparteneva alla Francia, anche perché, certe volte, il punto ch’io difendevo non coincideva con l’interesse francese. Però piacque ad alcune delle mie controparti, tanto che dalla mia partecipazione al “Dialogo Nord-Sud” nacque un’offerta di restare a Parigi come capo divisione all’Ocse in un progetto di ricerca proposto dai giapponesi, che – come confessarono – avevano visto i loro uffici di previsione presi totalmente di sorpresa dagli eventi del novembre 1973. E che perciò suggerivano, ed erano disposti a finanziare, una think tank internazionale dei paesi avanzati, il cui obiettivo sarebbe stato quello di esplorare la possibilità futura di simili crisi e conflitti: e per la quale proponevano ovviamente il nome “wa”, armonia, in lingua Giapponese.
Era un’offerta molto “fruttuosa”, ma che lì per lì rifiutai perché l’Ocse è un’organizzazione internazionale e per lavorarci avrei dovuto piegarmi alla fictio di essere senza patria. Intuivo che ciò sarebbe stato difficile, per me che di patrie ne avevo addirittura due. Poi, dopo un’intrigante conversazione con un poliedrico amico americano che lavorava alla Ford Foundation, anch’essa coinvolta nel progetto, mi incuriosii più di quanto sarebbe stato ragionevole, mi lasciai convincere e accettai. Ma solo a condizione di poter mantenere il mio legame con l’Università di Firenze. Nella seconda metà degli anni Settanta l’Ocse onorò puntualmente l’impegno di mandarmi in missione in Italia una settimana al mese, settimana che naturalmente dedicavo interamente agli studenti. Alas! Fu un’esperienza che mi fece diventare per sempre scettico sulle bureaucraties apatrides, come avrebbe detto de Gaulle, e che più tardi mi spinse ad andarmene dall’Ocse sbattendo la porta e a tornare in Italia.
A Roma, infatti, c’era una novità che aggiunse un pull factor rispetto al push factor rappresentato dallo squallore di quell’ambiente di falsi diplomatici che sono i funzionari internazionali. Era appena fallita – proprio nei giorni in cui si spegneva Pietro Nenni – una congiura contro Bettino Craxi tendente a defenestrarlo, togliergli la segreteria e sostituirlo con Antonio Giolitti (che del complotto era però piuttosto vittima che parte). Ma Gianni De Michelis – da uomo più interessato alla politica che ai giochi di potere qual era – si rifiutò di prendervi parte. Craxi ne usci più saldamente in sella di prima e con la possibilità di svolgere un ruolo nuovo e innovativo nella politica italiana; un ruolo che speravo corrispondesse all’idea che io – conoscendolo dai tempi dell’Università – mi ero progressivamente fatto di lui: quella – si magna licet componere parvis – del politico italiano più simile, come senso dello Stato e visione dell’identità nazionale, a Charles de Gaulle.
La collaborazione con Craxi mi tenne lontano da Parigi per quasi tutti gli anni Ottanta e mi consentì di marcare anche col “distanziamento fisico” la mia netta distinzione politica e soprattutto morale rispetto agli italiani assai equivoci e spesse volte spregevoli che, durante la presidenza Mitterrand, vennero a rifugiarsi a Parigi. Ma mi consentì anche di dedicarmi alla direzione di un trimestrale sulle relazioni internazionali, la cui lingua però era l’inglese, cosa che un po’ dispiacque a Jacques Andréani, il successore di Gilles Martinet a Palazzo Farnese, una grande personalità che conosceva e capiva l’Italia come nessun altro ambasciatore di Francia dopo di lui.
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A Parigi tornai solo alla fine del decennio per insegnare, nell’arco dei successivi 12 anni, all’Institut d’Etudes Politiques. Ma non fu un trasferimento, perché il mio impegno didattico era distribuito su una griglia di 23 settimane nell’arco dell’anno, in modo da permettermi di insegnare anche alla Luiss di Roma, dove ero ordinario. Ma soprattutto, a Sciences Po mi fu affidato il principale corso dedicato all’Italia contemporanea. E Alain Lancelot, una grande personalità scientifica che a quel tempo era la più alta autorità della Ecole, mi chiese anche di abbandonare l’impostazione classica che su questo tema era stata sempre adottata nelle università francesi e di adottare invece un approccio più italiano che mettesse in luce ciò che alla Francia poteva maggiormente interessare dell’esperienza italiana del dopoguerra. Il mio “io” italiano ne trasse ragione di grande soddisfazione e orgoglio.
Cercare di applicare la raccomandazione di Alain Lancelot si è rivelata un’assai istruttiva esperienza Perché mi ha consentito di constatare anno dopo anno come il totale inserimento culturale e identitario di un italiano nella realtà francese, o viceversa, sia perfettamente possibile. Mi ha molto emozionato leggere su Commentaire, il più prestigioso periodico culturale di Francia, che il mio caso “testimonia di quei destini così frequenti che permettono a uomini provenienti da culture così vicine di sentirsi di volta in volta italiani e francesi, o francesi e italiani”[17]. Ne ho concluso per noi italiani il miglior modo per essere in armonia con i nostri vicini d’oltralpe, per essere il più possibile vicini alla Francia, alla sua grande ed esemplare storia e a ciò che essa può donare a ciascuno di noi, è essere noi stessi.
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[1] A. Toscano, Ti amo, Francia: De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France, Paris 2019, Armand Colin.
[2] F. Galiani, L. d’Épinay, Correspondence, Paris, Desjoquères, 1993 (4 volumes). Per una traduzione in Italiano si veda: Epistolario 1769-1772, a cura di Stefano Rapisarda, prefazione di Giuseppe Giarrizzo, due volumi, Palermo, Sellerio, 1996
[3] B. Croce, Filosofia della pratica, Seconda edizione, Bari 1914, Laterza, p. 308.
[4] Come ancora oggi ribadisce uno storico italo-francese, Alessandro Giacone, in “AA. VV. La France et l’Italie ; histoire de deux nations sœurs”, Paris 2016, Armand Colin, p. 204.
[5] E che forse avrebbe potuto averne anche una terza se la preponderanza del francese domestico non avesse limitato gli effetti del pur formidabile metodo seguito dalla mia professoressa di inglese, che consisteva nell’accedere alla lingua non cominciando dallo spelling e dalla grammatica, bensì attraverso l’approccio diretto alla letteratura e alle mille voci dell’English-speaking world. E poi, il fatto che dell’Inglese, a scuola avessi studiato anche la storia della letteratura, mi consentiva di meglio inquadrare ciò che leggevo nel suo contesto politico-culturale, cosa che – per le mie letture in Francese – avveniva più sporadicamente, quando mia madre riusciva ad abbandonare per un momento il suo molto impegnativo ruolo naturale, e assumeva quello della professoressa.
[6] M. Donno, Italia e Francia: una pace difficile, Bari 2011, Lacaita.
[7] Autrice, tra l’altro, di una profetica denuncia del Trattato di Maastricht: Pourquoi NON! Parigi 1992, Plon.
[8] H. Tertrais, La piastre et le fusil, Vincennes 2014, Igpde.
[9] Ciò non era falso. De Gaulle ostentava scetticismo verso i fattori “altri” rispetto al fatto nazionale, in particolare nei confronti delle ideologie. Tanto è vero che egli, anche in incontri di Stato, chiamava i sovietici “russi”. Ma era un vezzo più che altro; non gli poteva infatti sfuggire che anche questo suo dare tanta preminenza al fatto nazionale poteva essere considerata un’ideologia.
[10] P. Palma, Randolfo Pacciardi: profilo politico dell’ultimo mazziniano, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012.
[11] Discorso pronunciato a Strasburgo, 23 novembre 1959. Va notato che la formula apparentemente equivalente, che gli è stata attribuita, “da Brest a Vladivostok”, De Gaulle non l’ha mai pronunciata. E naturalmente ci si può chiedere perché. Essa sembrerebbe infatti più precisa e più aderente a quello che si credeva essere il pensiero del Generale, perché escluderebbe le Isole Britanniche e includerebbe invece gli enormi territori russi al di là degli Urali. Eppure, ci si può chiedere perché De Gaulle non l’abbia mai fatta propria. Forse pensava ad una entità europea all’interno della quale l’equilibrio tra il piccolo e frammentato Cap d’Asie e il potente Stato dei Soviet sarebbe stato garantito dalla presenza britannica e da una collocazione della Russia rispetto a tale entità simile a quella della Prussia rispetto al Sacro Romano Impero.
[12] Wolfgang Streeck, Un empire européen en voie d’éclatement, in “Le Monde diplomatique”, Mai 2019, p. 1, 20-21
[13] Giuseppe Sacco, “Studenti a Parigi”, Nord e Sud, n. 101, Napoli, 1963.
[14] Giuseppe Sacco, “La Ribellione del Quartiere Latino”, Il Mondo, n. 781, 4/2/1964.
[15] Norman Podhoretz, Breaking Ranks: A Political Memoir, New York 1980, Harpers & Row, p. 202.
[16] Giuseppe Sacco, “Une plante parisienne », Commentaire, n. 165, Parigi 2019, Printemps, p. 158. In Italia esiste peraltro tutta una letteratura recente sui “cugini d’oltralpe”. Cfr. ad esempio F. Zardo, Come sopravvivere ai francesi, Roma 2003, Castelvecchi.
[17] Ivi.
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