A TRENT’ANNI DALLA NAVE “VLORA”
Non occorre essere particolarmente pessimisti per sapere che l’Italia non potrà fare grande affidamento suil'Europa per far fronte alle migrazioni provenienti dalla riva Sud del Mediterraneo
Iniziati ai primi di febbraio, culminati il 7 marzo con l’arrivo a Brindisi, in poche ore, di nientemeno che 27 mila profughi, e resi poi celebri nel mondo intero dalle favolose immagini dell’attracco a Bari, l’8 Agosto 1991, della nave Vlora, gli sbarchi in massa deli Albanesi sono ormai sul punto di diventare una memoria più che trentennale. E da allora, nonostante che il nostro vicino balcanico abbia conosciuto qualcosa di assai simile ad un “miracolo economico”, poco meno di mezzo milione di loro si sono inseriti ed integrati nella nostra società; in anni peraltro in cui le cronache hanno preso a raccontare della successiva formazione di altre comunità neo-italiane, soprattutto di quelle composte da Polacchi, da Rumeni, da Filippini, da Ucraini, da Marocchini, da Eritrei, da Tunisini, da Maliani e perfino da Sikh, portatori questi ultimi di una cultura che gli Italiani delle generazioni precedenti avevano conosciuto soltanto per il tramite dei fantasiosi romanzi di Emilio Salgari, e dalle loro riproduzioni televisive.
I Senegalesi, che pure hanno costituito una comunità molto presente in tutto il corso del trentennio, si sono, dal canto loro, fatti notare per il carattere organizzato, almeno inizialmente, del loro flusso verso l’Italia. Una confraternita religiosa islamica, la Muraddya, li aiutava infatti, e in qualche misura li assisteva tanto nella loro avventura migratoria quanto al momento del reinserimento in patria, esercitando una funzione di selezione e di controllo che ne ha fatto una delle nazionalità meno presenti nelle cronache criminali nel paese di accoglienza, distintasi anzi in qualche non trascurabile episodio di valore civile. Mentre i Maliani, presenti come braccianti sfruttati a sangue in molte aree rurali del Meridione, sono riusciti a distinguersi anche politicamente, dando nuova vita e significato alla memoria delle occupazioni delle terre che nel dopoguerra precedettero la riforma agraria, e persino alla figura del dirigente – e spesso dissidente – comunista Giuseppe Di Vittorio.
Bisticci italiani
Gli Italiani convivono dunque da molti decenni con l’immigrazione, e la storia recente del nostro paese sta diventando anche la storia di alcune comunità di “nuovi italiani”, caratterizzate da grande diversità etnica e culturale. Eppure i nostri politici ne parlano in maniera scarsamente approfondita e – occorre ammetterlo – assai poco seria. Pur non potendo negare la realtà e la necessità di un apporto di questi uomini e di queste donne al sistema produttivo, si accapigliano per denunciare o – al contrario – per minimizzare le conseguenze negative del fenomeno migratorio. Ma senza essere mai riusciti a darsi una politica né per fronteggiarlo e disciplinarlo, né per contenerlo in termini quantitativi gestibili, né per trarne il beneficio che il esso rende possibile per tutti, anche per i “vecchi” Italiani. Per non parlare del pudìco – ma in realtà vergognoso – silenzio che viene mantenuto sulla questione degli immigrati di seconda generazione, che da anni aspettano invano che qualcuno si ricordi di loro, e della legge sullo jus soli, che da così vicino li riguarda.
Per quel che concerne, poi, l’azione dello Stato, è facile constatare che nei comportamenti quotidiani, esso ha proceduto nei confronti degli immigrati in maniera, a dir poco, incerta, con alti e bassi, talora proclamando un sistema di “regole” e lasciando poi che, per ragioni falsamente «umanitarie», si creassero situazioni di fatto destinate a successivamente creare problemi che a volte sono parsi diventare addirittura drammatici. Le autorità – così come, per la verità, la pubblica opinione – non sono insomma apparse, né ancora oggi appaiono, in grado di trovare un giusto equilibrio nei loro comportamenti, ancor meno di definire una linea politica che sia al tempo stesso moralmente accettabile e politicamente realistica. Cosicché non molto sembra essere cambiato da quel che si vide già al momento degli sbarchi di cui ricorre oggi il trentesimo anniversario, la cui prima ondata venne accolta con grandissima, forse eccessiva benevolenza, mentre la seconda, pochi mesi dopo, venne respinta con altrettanto eccessiva durezza.
Il principale cambiamento verificatosi nei trent’anni successivi sembra in realtà essere soprattutto la progressiva diffusione dell’idea che l’Italia – trovandosi geograficamente in prima linea di fronte all’Africa, la cui popolazione passerà da 1,25 a 2, 5 miliardi in un paio di decenni – non possa affrontare la sfida dell’immigrazione senza l’aiuto dell’Europa, e senza un accordo che imponga anche ai paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, l’accoglienza pro quota degli immigranti irregolari cui sembra tecnicamente ed umanamente impossibile impedire che si riversino sulle sponde dell’Europa meridionale.
Ed è questa – l’idea di una responsabilità comune europea di fronte a un’onda d’urto già iniziata e che per il futuro appare tanto inevitabile quanto numericamente incontrollabile – un’idea tanto più seducente e ripetuta, quanto meno effettivamente realizzabile. Perché assai difficilmente i principali partners europei dell’Italia potranno essere convinti ad un’effettiva ed equa distribuzione dell’accoglienza. E perché ciascuno di essi ha non poche e non trascurabili ragioni per opporvisi, sia che lo faccia apertamente, sia che si dedichi a procrastinare indefinitamente ogni effettiva azione comune.
Furia francese
La Francia, in primo luogo. Perché Parigi ha già i propri problemi, derivanti da una storia di flussi migratori eccessivi ed ininterrotti sin dagli anni del dopoguerra; e problemi di odine pubblico e di terrorismo di tale gravità da rendere inverosimile che ci sia, al di là delle Alpi molta disponibilità a farsi carico anche di solo una piccola parte dei problemi altrui. E che quelli della Francia siano problemi non da poco, è ben dimostrato dal fatto che una nazione che si presume laica, sia in realtà oggi impegnata in una sorta di interna guerra di religione; una guerra che vede lo Stato cogliere ogni occasione possibile per tenere duramente sotto controllo le minoranze islamiche di origine africana e nordafricana. Una guerra interna, peraltro, in cui le prospettive non sembrano apparire molto rosee, se è vero – come è vero – che la Francia è l’unico paese occidentale in cui la comunità ebraica declina numericamente ogni anno, per effetto dell’emigrazione verso Israele.
Il “muso duro” di Parigi nei confronti della consistente minoranza islamica ormai radicata all’interno dell’Esagono può certo essere considerato un comportamento condannabile dal punto di vista etico. Ma è un comportamento che si può in parte spiegare con la composizione della comunità immigrata sul territorio della “cugina” d’oltralpe. La grande maggioranza della popolazione di origine immigrata proviene infatti dall’Africa settentrionale, pratica la stessa religione islamica, e parla – o meglio mastica – la stessa lingua, l’arabo. Si tratta quindi di una massa umana in possesso delle tre principali caratteristiche che individuano e formano una nazione; o forse si dovrebbe addirittura parlare di una “contro-nazione” interna alla Francia, e per molti aspetti culturali alternativa rispetto quella francese.
Ed è su questo punto che appare la maggiore gravità della situazione d’oltralpe rispetto a quella italiana, che – al momento, almeno – vede ancora non solo una percentuale di immigrati nettamente inferiore in termini proporzionali, ma anche e soprattutto un insieme composto di donne e uomini di origine troppo diversa per non avere altro possibile destino che quello dell’integrazione nella società italiana. Una società italiana che sarà certo molto mutata rispetto quella di oggi e del passato, e la cui cultura avrà assorbito molti elementi di origine extraeuropea, ma il cui nucleo sarà fondamentalmente riconducibile, anche da un punto di vista culturale, a quello originale. A condizione naturalmente che nuove ondate di immigranti, compatte ed omogenee per etnia e per cultura, non vengano a stravolgere la situazione attuale.
Paure tedesche
Anche la Germania, dal canto suo, soffre di problemi demografici e politici che ne rendono assai improbabile la partecipazione attiva ad un programma di condivisione europea sull’ ormai caldo fronte dell’immigrazione proveniente dalla sponda Sud del Mediterraneo. Ed infatti tutta l’opinione pubblica internazionale ha avuto nel 2015 la prova provata dell’incapacità della società tedesca ad accettare le misure che sarebbero necessarie per porre fine o almeno attenuare lo storico problema dell’insufficienza demografica della Repubblica federale.
Questa incapacità apparve già molto chiaramente quando, all’epoca della presidenza europea di Romano Prodi, ben dieci nuovi paesi vennero accettati in blocco come membri dell’Unione; paesi all’interno dei quali – situazione demografica messa a parte, e considerando invece la disoccupazione – esisteva un potenziale migratorio immediato pari a circa 3 milioni di esseri umani. L’opinione pubblica tedesca ebbe allora una reazione di panico e di xenofobia, e – terrorizzata dal famoso “idraulico polacco” – impose che a tali nuovi membri dell’Unione Europea non si applicasse l’accordo di Schengen, in modo da evitare che una massa troppo pesante di immigrati in cerca di lavoro si riversasse sul mercato e sul suolo tedesco. Ed infatti essi sono stati in larga misura assorbiti da altri paesi membri, come l’Italia, ma anche da paesi che di Schengen non facevano parte, come il Regno Unito, ormai fuori dalla stessa Unione Europea.
Proprio dal punto di vista di quell’ampia fascia del pubblico tedesco che – fedele al principio secondo il quale “Tedeschi si nasce, non si diventa” – nutre nei confronti degli stranieri forti pregiudizi, timori ed ostilità, quella decisione si rivelò tuttavia un gravissimo errore. Una volta persa quell’occasione, alla signora Merkel non rimase infatti possibile che rivolgersi, ai fini della propria politica contro la denatalità e lo spopolamento della Germania, verso la comunità alawita in fuga dalla Siria nel momento in cui il regime degli Assad sembrava giunto alla fine, e che il Presidente russo Putin lanciasse proprio sul terreno siriano il suo “no more regime changes“.
Si trattava, certo, di Musulmani, ma di Musulmani alawiti, cioè appartenenti ad una variante particolare e marginale, spesso considerata eretica o addirittura diabolica dai più ortodossi fedeli dell’Islam, e come tali perseguitata ed esposta a un permanente rischio di genocidio; il che costituiva in un certo senso una garanzia che tra di essi non vi sarebbero stati elementi di quel terrorismo jihadista che si era rivelato il primo e il più feroce tra i loro persecutori.
Trattandosi poi di una setta che aveva governato e dominato la Siria per circa mezzo secolo, questo gruppo presentava inoltre il vantaggio di essere composto da persona di classe media, con buona formazione professionale, e che portava con sé anche piccoli capitali accumulati negli anni e prudentemente tenuti all’estero. Quanto di meglio – alla metà del secondo decennio del secolo – potesse offrire all Germania la situazione internazionale in materia di profughi e di senza terra.
Tutto ciò si rivelò tuttavia insufficiente per renderli accettabili all’opinione pubblica germanica, e ad evitare che si verificassero incidenti più o meno montati ad arte, tra i quali si ricorderà il famoso quanto ridicolo episodio delle donne “toccate” alla Hauptbahnhof di Colonia. La ventata di razzismo fu tale che la stessa carriera politica della Cancelliera parve per un momento posta a rischio. E se la signora Merkel, il cui prestigio e la cui autorità erano fino allora indiscussi, fu costretta ad abbandonare questo progetto dopo il primo fallimentare anno di applicazione, non saranno certo i suoi ancora incerti successori che potranno decidere, in nome della solidarietà europea, vaste aperture a flussi di immigranti provenienti dal continente africano.
Un salto evolutivo
Non occorre insomma essere particolarmente pessimisti per prevedere che, all’indomani degli sconvolgimenti creati dalla pandemia, e dalle nuove diversità tra paesi ricchi e paesi poveri con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni, l’Italia non potrà fare grande affidamento sui suoi partners europei per far fronte ed assorbire l’ondata demografica proveniente da Sud.
Il che, peraltro, viene a coincidere, sulla sponda nord del Mediterraneo, non solo con una situazione non solo di carenza di risorse umane, ma anche di smarrimento politico-culturale. Come ha scritto Domenico Galbiati su politicainiseme.com , in assenza di un forte flusso proveniente dall’estero “la stagnazione demografica dei Paesi europei, a cominciare dal nostro, rischia – soprattutto a fronte dell’ impetuosa crescita della popolazione africana – di trasformarci in una sorta di “parco delle rimembranze” o nello splendido museo a cielo aperto di un’Europa stanca e rassegnata”.
Molti fenomeni confermano questa decadenza generale, ma che riguarda in particolare il nostro paese. Basta pensare al drammatico collasso culturale, politico e di professionalità dell’Italia negli ultimi anni ed alla vera e propria esplosione del convincimento che la sguaiata demagogia di un clown di professione, unita all’ignoranza dei suoi scalcagnati ed improvvisati seguaci potessero dar vita niente meno che ad una forza politica. Basta cioè pensare all’esplosione d’incompetenza culminata nelle disastrose elezioni nel 2018, che hanno trasformato il regime politico del nostro povero Paese in una vera propria kakikrazia, il governo dei peggiori.
Come scrive ancora Galbiati, trent’anni dopo il drammatico attracco, nel porto di Bari, della nave Vlora, “i migranti che dalla Libia o dalle coste tunisine giungono a Lampedusa”, non sono insomma altro “che l’avanguardia di un più vasto ed ampio processo che fin d’ora allude alla progressiva creazione di società multietniche”. Società multietnica di cui l’Italia ha forti probabilità di essere primo e più emblematico caso tra i paesi europei.
Non c’è, in questa prospettiva, nulla di moralmente orripilante, né nessuna ragione che debba far diventare gli Italiani di oggi xenofobi e razzisti, come qualcuno non mancherà di proporre. C’è invece abbastanza per giustificare un tentativo di riportare il dibattito politico-culturale del paese al livello dei grandi principi culturali, politici ed etici, affinché essi non vadano perduti nel corso della difficile prova che è dinanzi a noi individualmente, e collettivamente al nostro Paese: quella di “un salto evolutivo quale pochi altri ha conosciuto nell’intero decorso della sua storia”.
Leave a Reply