L’EUROPA DOPO IL “SI” INGLESE AL BREXIT:
Intervista a Giuseppe Sacco
Abbiamo voluto sentirlo per capire le sfide che la Ue e l’Italia dovranno affrontare dopo il voto del 23 giugno.
Con l’opinione mondiale che sembra ancora sotto shock per il risultato a sorpresa, è possibile, secondo lei, fare una valutazione obiettiva del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE?
L’emozione con cui, in primo luogo in Inghilterra, è stato accolto il risultato è certamente un evento in sé; e un evento che vale la pena di sottolineare. Ed ancor più le urla e il furore che hanno caratterizzato tutta la campagna. Ma dove è finito il sangue freddo britannico? Dove è finita la loro capacità to keep the upper lip stiff , la principale dote che gli Europei – Italiani e soprattutto Tedeschi – hanno davvero ragione di invidiare ? E dove è finita la lezione di Shakespeare? Di fronte a tutto questo chiasso mi vien voglia di dire, come Macbeth:
“it is a tale / told by an idiot, full of sound and fury, / signifying nothing”.
Nonostante tanta agitazione, mi sembra che si possa, in definitiva, parlare di un evento molto importante: come di fatto è. E ciò anche se non è ancora detto che davvero il Governo di Londra porti avanti con serietà la complessa procedura che dovrebbe sancire formalmente il distacco. Già 24 ore dopo il momento in cui sono stati resi noti i risultati, Cameron ha detto che l’avvio di tale procedura di divorzio potrà aspettare sino a dopo la scelta del suo successore a Downing Street, scelta che non avverrà prima di Ottobre. Tra quattro mesi! E i leaders del “leave” – che già litigano tra di loro su chi dovrà installarsi sulla poltrona del premier sconfitto– hanno cercato di rimandare ad una data ancora più lontana ed incerta, addirittura a dopo un nuovo negoziato con Bruxelles. E’ già chiara insomma l’intenzione britannica di tirare a perdere tempo, e di avviare una nuova eterna trattativa in cui mendicare – ma sempre con l’aria di fare un piacere ai paesi fondatori della UE – un accordo per godere dei privilegi di essere nell’Unione, senza, ovviamente, pagarne il prezzo in termini di doveri e responsabilità.
Ma quali altre concessioni potrebbe chiedere il Regno Unito? Praticamente è già esente da ogni obbligo. Più di qualsiasi altro paese membro. Non solo non è vincolato alla Moneta Unica e al Trattato di Schengen in materia di libera circolazione. E’ anche fuori dalla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia, che può capovolgere le leggi degli altri paesi membri, ma non quelle britanniche, perché Londra – rifiutando ancora di prendere atto che più di due secoli fa c’è stato, in Europa, un evento che si chiama Rivoluzione francese – si rifiuta di sottoscrivere la Carta dei diritti dell’Uomo. E in generale Londra ha il privilegio di poter non applicare la legislazione UE in materia di Giustizia e di Affari Interni. Per di più, la Gran Bretagna già gode di un sostanziale sconto sulla tariffa per abitante con cui la Germania, l’Italia e la Francia contribuiscono al bilancio della UE.
Quali altre concessioni dovrebbe ottenere il governo inglese, per poter organizzare tra due anni un altro referendum tra Leave e Remain?
Insomma, di fronte a tutto questo clamore demagogico, la principale novità seria e meritevole di attenzione mi sembra invece il fatto che l’Europa abbia preso una posizione del tutto opposta, dicendo a Londra di sbrigarsi ad avviare la procedura di divorzio, e ad andarsene. E’ stato dato così un segno di insolita vitalità e dignità. E che poi siano stati i Sei paesi fondatori a farlo, è ancora più positivo.
Ma allora come si spiega lo sconcerto e l’allarme che. sin delle prime ore, è rimbalzato su tutti i media del mondo?
Si spiega con il fatto che il voto degli Inglesi ha assunto un aspetto quasi sacrilego. Esso infatti segna una evidente rivolta dell’opinione pubblica non solo contro la casta dei politici di professione, ma anche contro l’opinione “pubblicata”, che ancora una volta si è comportata in maniera grottesca.
E che dire del Wall Street Journal, che ha pubblicato un articolo in cui si diceva addirittura che il voto a favore o contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea era la decisione più importante presa dal regno britannico fin dal momento in cui un suo re si staccò dalla Chiesa cattolica. Peccato che dopo di allora gli Inglesi hanno combattuto quattro o cinque guerre civili, fatto una rivoluzione e una controrivoluzione, tagliato la testa al re, instaurato la Repubblica, proclamato Cromwell Lord Protettore, creato l’America, conquistato un impero che comprendeva circa un terzo delle terre emerse, favorito occultamente la Rivoluzione francese, promosso ben otto coalizioni per combattere Napoleone, cambiato il mondo con la rivoluzione industriale, vinto due guerre contro la Germania……
Si potrebbe pensare che tutte le esagerazioni di questi giorni siano dovute ad imbecillità pura. Ma non è così. Si tratta piuttosto di servilismo delirante, di media che prendono i loro lettori per imbecilli, e come tali li trattano. E che credono veramente di poter continuare a raccontare loro fandonie su fandonie per condizionarli e tramutarli in servi. Basterà notare che si tratta degli stessi media che hanno battuto a più non posso la grancassa secondo la quale Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa o addirittura della bomba atomica.
Nel caso dell’Inghilterra, poi, va notato che alcuni dei grandi proprietari di questi media non sono neanche inglesi. E quindi si può immaginare che l’interesse nazionale non sia la prima delle loro preoccupazioni. È questo il caso non solo dell’Australiano-Americano Murdoch, proprietario – oltre che nel network televisivo Sky – sia del Times e del Sunday Times, che del Sun, ma è anche il caso dei Giapponesi del gruppo Nikkei che hanno di recente comprato il Financial Times.
C’è insomma nel voto inglese a favore dell’uscita dalla UE, un elemento di rivolta contro le “verità ufficiali”, e contro i media che se ne fanno portatori?
C’è stata certamente una componente di rivolta contro un establishment che crede di poter continuare a legittimare il proprio potere raccontando panzane sempre più colossali. E panzane che sono diventate sempre meno verosimili da quando il “socialismo realizzato” ha cessato di esistere.
Finché ci sono stati al mondo due blocchi politicamente ed ideologicamente contrapposti, sono infatti esistite anche due contrapposte “verità”. E ciascuna di esse cercava di conquistare proseliti nel campo dominato militarmente dall’altra superpotenza. A questo fine, la propaganda di ciascuna delle due parti cercava di avanzare argomenti che, se non veri, almeno fossero verosimili, fossero credibili. Per questo motivo si restava abbastanza vicini, se non alla realtà dei fatti, almeno alla percezione che il pubblico ne poteva avere direttamente. Ma da quando è venuto meno uno dei due rivali politico-militari, il campo vincitore ritiene ormai di poter spacciare qualsiasi bufala come una verità in cui far ciecamente credere i suoi sudditi. E la prego di notare che non sono un nostalgico che sta parlando bene del comunismo. Sono un occidentale che sta parlando bene della concorrenza, tema sovranamente liberale.
Churchill disse una volta che quando inizia una guerra, la prima vittima è la verità. Ma negli ultimi anni è successo il contrario. E’ accaduto che, con la fine della Guerra Fredda, si è creato un clima di conformismo generalizzato. Un clima che ha portato alla nascita di una sorta di linguaggio politicamente corretto che è proibito, e pericolosissimo non rispettare. L’Ovest vittorioso ha dato vita ad un Westspeak peggiore del newspeak orwelliano. Lasciamo da parte, per un momento, la “verità”, che è parola troppo grossa, e parliamo di un sistema dell’informazione decente e credibile. E’ sempre stato noto che tale sistema è una precondizione essenziale perché esista una società libera e aperta al confronto delle idee. Ma ora – nel mondo dell’informazione globalizzata e trasformata in struttura di potere – vediamo che, se non c’è uno scontro a tutto campo tra ideologie diverse, e sistemi socio-politici fondati su tali ideologie, anche la produzione e il confronto delle idee rischia di venir meno, e ogni pensiero autonomo e creatività individuale rischia di essere appiattita e cloroformizzata.
Quindi il voto a favore dell’uscita nel Regno Unito dall’Unione Europea segna, secondo lei, una rivolta contro le menzogne con cui la classe dirigente occidentale, e in questo caso britannica, cerca di mascherare il fallimento del modello neoliberale applicato negli ultimi 35 anni e l’impoverimento generalizzato della popolazione che esso ha determinato sia in Inghilterra che negli Stati Uniti?
Va detto che anche il campo favorevole al Brexit ha condotto anch’esso una campagna assolutamente menzognera. Un osservatore inglese, molto acuto e molto bene informato, che posso citare solo mantenendo l’impegno all’anonimato, è giunto a dire che gli argomenti utilizzati dagli esponenti del campo antieuropeo avrebbero fatto invidia al Dottor Goebbels.
Le menzogne dell’altro campo, quello pro-europeo, erano semplicemente l’insieme dei luoghi comuni accumulati negli ultimi cinquant’anni dalla opinione pubblicata di tutto l’Occidente: era quello che qualche anno fa veniva chiamato il “pensiero unico”. E’ il cosiddetto, “luogo-comunismo”: un’ammorbante e irrespirabile cumulo di slogan fritti e rifritti che tende a schiacciare sotto il suo rullo compressore qualsiasi opinione individuale, e che cancella ogni speranza del cittadino pensante di poter in qualche modo influire sul proprio destino e su quello del proprio paese.
C’è dunque all’origine di questo voto una frustrazione, una sensazione di impotenza, un’esasperazione generalizzata del pubblico britannico?
Il voto a favore del Brexit si inserisce indubbiamente in una situazione psicologica negativa, di fallimento e di impotenza, comune a tutto l’Occidente, e determinata dal trentacinque anni di globalizzazione. Questa ha avuto in Occidente conseguenze sociali disastrose. Da un lato ha portato alla nascita di une élite stra-miliardaria del denaro e del potere, i cui componenti non hanno più nessuna connessione con i Paesi di origine. Il capitalismo nazionale che Lenin credeva avesse raggiunto, con l’Imperialismo, la sua fase suprema, non esiste più.
C’è invece un capitalismo, apolide, apatride – senza patria, come dicono i Francesi –, che ha svuotato di senso e di ruolo gli Stati e le Nazioni. E che soprattutto sta spingendo l’insieme della popolazione in una condizione di ristrettezze economiche estreme e crescenti; e soprattutto in una condizione di assenza di ogni prospettiva migliore per l’avvenire.
Il cosiddetto “sogno americano”, l’idea che lavorando duro si potesse cambiare classe sociale, è completamente morto. Ed è stato sostituito dalla prospettiva che, a meno di non essere uno dei pochissimi che riescono in gioventù a fare un colpo fortunato e a diventare così miliardari, si finisca tra le decine di migliaia di senzatetto alcolizzati e spesso drogati che girano, come mandrie disorientate e senza meta, nelle grandi città americane; in particolare in California, già terra della “corsa all’oro” ed oggi affollata di giovani illusi dal mito delle start up.
E questo ha varie conseguenze, alcune delle quali – e neanche le più drammatiche – sono il senso della perdita di identità; la rabbia contro l’establishment che ha colto di sorpresa l’America col fenomeno Trump; l’esasperazione di massa apparentemente incomprensibile che da mesi sconvolge la Francia. E che, col referendum britannico, ci ha fatto vedere un’onda di fondo che più che bocciare l’Europa, ha voluto “sfasciare tutto”, così come nell’Agosto del 2010 una folla inferocita sfasciò e saccheggiò tutti i negozi di Oxford Street e di Regent Street a Londra. O meglio: non tutti i negozi…. perché a nessuno venne in mente di sfondare le vetrine delle librerie. Quella folla inferocita non sapeva veramente che farsene di altre chiacchiere. Non ne sentiva davvero nessun bisogno.
Quei disordini presero tutti di sorpresa. Fenomeni di questo tipo sono infatti ricorrenti in Francia, ma insoliti in Inghilterra. E la loro origine, le loro motivazioni non sono state mai state analizzate a fondo, né davvero spiegate.
E’ vero. Sulle due sponde della Manica questa rabbia e questa esasperazione presentano oggi un’insolita analogia. E in definitiva si rivolgono, paradossalmente, contro il sogno europeo, che è stato per mezzo secolo il vero punto di superiorità politica del vecchio continente rispetto all’America, che – dopo il breve passaggio di Kennedy alla Casa Bianca – non ha avuto più nessun sogno da offrire.
Ma se l’assenza di ideali prende sul continente forme come in Francia quelle del Front National che l’establishment in definitiva è finora riuscito a marginalizzare (facendo ricorso ad ogni tipo di trucchi e discriminazioni), le cose stanno diversamente nel regno britannico, dove anche una sostanziosa parte della classe dirigente si scaglia apertamente contro l’Europa. La spiegazione sta nel fatto che, nonostante il ruolo di Londra nella globalizzazione finanziaria, che ne ha fatto la città più ricca e più cara del mondo, la composizione della classe privilegiata che domina il resto dell’Inghilterra è diversa da quella che domina la capitale, che infatti ha votato “remain“, e che si permette snobberie globalizzanti come un sindaco musulmano. Fuori di Londra, c’è infatti nella classe dominante Britannica una componente pseudo aristocratica, che è molto più antica, e che risale addirittura a Guglielmo il bastardo, ed alla spartizione che un migliaio di anni fa egli fece delle terre da lui conquistate tra i capi tribù suoi seguaci. Ed è questa la classe da cui proviene Cameron.
Cameron è stato quindi sconfitto ed abbattuto dalla sua stessa classe sociale?
No, naturalmente. La sua classe sociale è troppo poco numerosa per pesare in maniera determinante in un referendum. Cameron è stato colpito e affondato dal voto di milioni di esclusi che hanno visto la loro condizione peggiorare negli ultimi 35 anni. La classe pseudo-aristocratica ha solo aggiunto i suoi voti. Come tutti hanno notato, Cameron è uscito sconfitto dai propri errori, dal fatto di essere un politico e uno stratega molto mediocre. Ed è qui viene in luce la responsabilità della sua classe di origine.
In una società profondamente stratificata come quella britannica, dove si accede alle scuole di qualità sulla base della condizione sociale della famiglia, e poi dalle scuole di élite si accede direttamente alle cariche pubbliche, la selezione del personale politico finisce per essere fatta su una base estremamente ristretta. Il criterio meritocratico passa insomma in secondo piano rispetto all’appartenenza e alla fedeltà alla classe dominante. Così, al fine di perpetuare il sistema sociale esistente, non sono i migliori ad emergere. Cameron è il frutto di questa selezione all’incontrario. Non si può quindi meravigliare se rischia di passare alla storia come il premier che ha staccato Londra dall’Europa e, nel caso la Scozia decidesse invece di restare, come il politico che ha addirittura distrutto il Regno Unito.
La Brexit per cui tanti si stracciano tardivamente le vesti è quindi anche il frutto dell’ostinazione di una piccola categoria sociale a mantenersi al potere costi quel che costi. Così come ha fatto in passato, per un arco di tempo che – tranne pochi e provvisori scossoni – è durato quasi mille anni.
Mille anni sono un’enormità, certo. Eppure l’Inghilterra è rimasto uno dei paesi più statici dal punto di vista sociale. Lo raccontano bene i romanzi di Jean Austin, dove ci si innamora e ci si sposa sempre tra cugini, in modo da non dividere i patrimoni. Ed uno studio recente dell’OCSE ha messo in luce che ancora oggi, nel Regno Unito, poco meno del novanta per cento della popolazione occupa una posizione sociale di livello pari a quella dei propri genitori. In Francia, al contrario, questo dato è solo del 31%. In Italia, mi consenta di dire, questo indicatore della mobilità e/o staticità sociale è stato simile a quello della Francia tra la fine della guerra e la seconda metà degli anni 60. E poi, dopo il 68, è cresciuto progressivamente avvicinandosi oggi a quello dell’Inghilterra.
A differenza dell’America, dove la classe privilegiata è sempre più composta da nuovi ricchi che hanno fatto la loro fortuna in campo tecnologico e soprattutto finanziario speculativo, in Inghilterra – dove non c’è stato il fenomeno Silicon Valley – la ruling class è composta non solo dall’ambiente della City di Londra, ma anche da una classe di country gentry, che la riforma dei rotten boroughs nel 1832 non riuscì – checché ne dica la storia “ufficiale” – a distruggere: una classe anzi con cui il promotore della riforma, il premier Charles Grey, alla fine dovette fare un compromesso.
Questa composita aristocrazia della terra del danaro, non tende come i miliardari americani ad accumulare sempre maggiori fortune da rinchiudere nelle casseforti della Svizzera e dei paradisi fiscali. Certo! Neanche essa è immune dall’universale sentimento di avidità che domina il mondo contemporaneo, e il cui esempio più volgare e clamoroso sono gli oligarchi russi, che non a caso vedono l’Inghilterra come la loro Terra Promessa. Ma la ruling class britannica si sente soprattutto legittimata al privilegio da una tradizione di dominio politico e sociale che risale al Medioevo, e che la legittima a un ruolo dirigente, ai propri occhi, e agli occhi di molti sudditi di Sua Maestà. Essa perciò intende rimanere alla guida del paese anche indipendentemente e contro gli interessi economici generali del Regno Unito. Ha sempre comandato, e vuole continuare a comandare. Il suo obiettivo è puramente di conservazione del potere. Molto diverso in questo dall’obiettivo di accumulazione delirante di ricchezza che caratterizza la classe nata e cresciuta con la globalizzazione. E ciò ha fatto si che votasse e facesse votare per il “leave”, nonostante la Gran Bretagna abbia largamente tratto profitto, e avrebbe continuato a trarre profitto, dall’appartenenza all’Europa.
Quindi Lei, se fosse stato Inglese, avrebbe votato per restare?
Sarebbe dipeso dalla classe sociale! Se fossi un professore universitario, un pensionato, una persona che deve fare affidamento sul sistema sanitario pubblico, probabilmente si: il mio interesse più meschino ed immediato sarebbe stato di votare “remain”. L’appartenenza alla Unione Europea pone un qualche limite agli istinti animali del capitalismo globalizzato, persino in Gran Bretagna. Se fossi invece stato un ex-operaio delle acciaierie di Sheffield, come i protagonisti del film “Full Monty”, insomma se fossi invece stato uno che non ha più niente da perdere, avrei anch’io dato una mano a sfasciare tutto.
A questo proposito, vorrei fare notare che, la notte in cui si scrutinavano le schede, è stato il forte successo del voto ”leave” a Sunderland, una città del Nord-Est dell’Inghilterra praticamente sconosciuta ai più, che ha fatto crollare la Sterlina sui mercati dell’Estremo Oriente, che a quell’ora erano già aperti. E perchè? Perché Sunderland era in passato una città industriale, con importanti cantieri navali ormai chiusi, dopo che la concorrenza sudcoreana li aveva mesi fuori mercato. Ed è oggi una città particolarmente e spaventosamente depressa, abbastanza simile alla Sheffield del “Full Monty”. E da come aveva votato Sunderland gli operatori di borsa e gli speculatori sulle valute hanno capito che gli strati più umiliati e più ignorati della società britannica si stavano rivoltando, hanno intuito quale sarebbe stato il risultato del referendum, ed hanno cominciato a vendere sterline.
Ma non è un po’ senza senso votare contro l’Europa, ribellarsi alla burocrazia di Bruxelles, come protesta per il fatto che la concorrenza coreana ha distretto tanti posti di lavoro?
Sembra senza senso, ma in realtà, lo è meno di quanto non si possa credere. Certo, i posti di lavoro ai cantieri navali di Sunderland sono stati distrutti parecchi anni fa, molto prima che – cosa che questi disgraziati probabilmente non sanno – i burocrati dell’Unione Europea firmassero, pochi mesi fa, un nuovo trattato bilaterale di libero scambio con la Corea del sud, contro il quale neanche le obiezioni di Marchionne hanno potuto nulla. La loro protesta si rivolge in maniera generica contro l’apertura delle frontiere al commercio internazionale, che essi vedono simboleggiata dalla partecipazione nel Regno Unito all’Unione Europea. E, In definitiva, non sbagliano neanche tanto, perché la burocrazia di Bruxelles è ormai così rigidamente impregnata dall’ideologia neoliberale propagata dai 10.000 lobbisti delle grandi compagnie globali che sono in permanenza a Bruxelles, da firmare senza pensarci due volte qualsiasi pezzo di carta venga messo sul tavolo, purché contenga le parole “libero scambio”.
Ed anche votare contro l’Europa per protesta contro l’immigrazione – l’altro elemento che spiega il voto degli strati sociali come quelli di Sunderland – è meno irrazionale in quanto non posso sembrare, se si considerasse che la maggior parte degli immigrati presenti nel territorio britannico provengono non dall’Europa ma dal Terzo Mondo. Però, agli occhi di questa classe operaia ormai in gran parte disoccupata, l’immigrazione di origine europea appare più pericolosa sotto il profilo della concorrenza per i loro posti di lavoro.
Dopo gli attentati del 2005, anche per adeguarsi ad un ondata anti-islamica nell’opinione pubblica, il governo di Londra ha infatti favorito l’immigrazione proveniente dagli otto nuovi paesi membri dell’Europa centro-orientale, che erano stati ammessi in blocco nella UE l’anno precedente, a coronamento della Presidenza Prodi della Commissione Europea. I quattro milioni di potenziali migranti, che si calcolava ci fossero in questi nuovi paesi membri,e che non avevano legalmente il diritto di emigrare verso i paesi firmatari dell’accordo di Schengen, apparvero – agli occhi di Downing Street – meno pericolosi e più facilmente integrabili perché molto differenti dagli immigrati provenienti dal Terzo Mondo. Provenivano soprattutto dalla Polonia, dalla Romania, e dai paesi baltici, il che significava che erano bianchi, che non erano musulmani, e che avevano avuto una notevole educazione tecnica, che nei paesi comunisti era sempre stata molto promossa. Ma proprio questi fattori hanno fatto sì che, agli occhi di una classe operaia britannica sempre più sul margine della disoccupazione di massa, essi apparissero subito, e appaiano ancora, come concorrenti particolarmente pericolosi.
Quindi, lei in un certo senso giustifica, se non addirittura condivide, le ragioni per cui gli strati più sfavoriti della popolazione inglese ha votato “leave”?
Se lei continua a chiedermi cosa avrei votato se fossi stato suddito britannico, le devo dire che, da professore universitario, avrei tenuto conto dell’interesse generale del mio paese, e avrei votato “Remain”. Ma non sarei completamente sincero se non le dicessi che, fossi invece stato uno di quei disgraziati ex arsenalotti di Sunderland, avrei probabilmente votato come loro.
Ma la prego di credere che alla sua domanda mi è quasi impossibile rispondere: non riesco a immaginarmi né come culturalmente Inglese, né come suddito di una regina che pretende di essere anche il leader spirituale di una Chiesa cristiana. Essere cittadino di una Repubblica laica, e fondata sulla volontà popolare, come la Repubblica Italiana, è una parte troppo forte della mia personalità perché possa riuscire ad immaginarmi altrimenti.
Comunque, come Europeo – e questa è una identità che si concilia perfettamente col mio essere Italiano – credo che il Brexit avrà nel complesso effetti positivi per l’Europa continentale e per le sue istituzioni.
A Bruxelles, però, regna una grande agitazione. Si parla quasi soltanto dei problemi che l’uscita britannica provocherà. E nessuno fa accenno ad alcun aspetto positivo.
Ciò è comprensibile. Bruxelles è il regno della burocrazia europea. E di una burocrazia, che ha fatto del sogno europeo un ricco business personale da cui tende ad escludere chiunque non ruoti attorno ai palazzi brussellesi. E per la burocrazia qualche problema indubbiamente si porrà. Forse qualcuno tra di loro è allarmato perché ha capito – ma non ci conterei molto – che una buona parte della noia prima, e poi dell’irritazione e dell’ostilità che suscita l’Unione Europea deriva in gran parte dall’essere questa burocrazia tanto arrogante quanto ottusa. Comunque – ripeto – se la Gran Bretagna uscirà veramente dalla UE, qualche problema al loro squallido e ben pagato tran tran si porrà. E qualcuno perderà il posto, cosa mai vista nelle organizzazioni internazionali.
Si pensi, tanto per fare un esempio, ad un problema che ora toccherà tutti i burocrati e i lobbisti che li alimentano, il problema della lingua di lavoro. In teoria, tutte le 24 lingue dei paesi UE sono ufficiali, perché – sempre in teoria – tutti i paesi membri sono eguali. Però il carattere fittizio di questa eguaglianza già si vede nel fatto che le lingue di lavoro sono soltanto tre: l’Inglese, il Francese e il Tedesco. Ma anche questa è una fictio. Pochi funzionari conoscono veramente il tedesco, e pochissimi lo usano come lingua di lavoro.
Oggi dominano il francese, perché si era già radicato prima che il Regno Unito venisse ammesso nella CEE, e l’Inglese che si è affermato sempre più prepotentemente negli anni successivi. Basta pensare che negli ultimi tempi i nuovi funzionari venivano assunti attraverso una selezione che prevedeva almeno la conoscenza di una o più lingue comunitarie, oltre la lingua madre, ma con l’eccezione dei candidati britannici, cui era richiesta soltanto la conoscenza dell’Inglese.
Dopo il voto britannico, e i passi successivi che si dovranno fare per lo scioglimento del vincolo UK-UE, la lingua inglese dovrebbe essere eliminata come lingua ufficiale della Unione. Però già viene avanzato, per cercare di mantenerlo come lingua di lavoro, il pretesto secondo in quale il 38% della popolazione del “rEU” (rest of European Union dopo il ritiro britannico) conoscerebbe l’Inglese come seconda lingua. E’ un dato ovviamente fittizio. Ma si farà finta di crederci, e andrà probabilmente a finire che si farà un maggior uso del Tedesco nei discorsi e nei documenti ufficiali, che il Francese manterrà la sua posizione, e che l’Inglese resterà dominante nelle conversazioni di corridoio e nelle prime bozze dei documenti ufficiali.
Il secondo, ma più importante problema, di Bruxelles è che ci sono moltissimi posti importanti coperti da funzionari inglesi. Bisognerà progressivamente sostituirli. Molti di questi cercheranno di ottenere una fittizia nazionalità irlandese. Altri potranno tentare il diventare sudditi belgi in virtù della loro lunga residenza sul territorio. Ma ci sono comunque delle quote nazionali che dovranno essere rispettate. E questo sarà anche un’occasione per l’Italia, anzi un’occasione che l’Italia non deve perdere per essere meno sotto-rappresentata e mal-rappresentata di quanto non sia oggi.
E dal punto di vista decisionale, come cambieranno i rapporti di forza all’interno dell’UE?
I rapporti di forza, in un’istituzione come la UE, che ha perso ogni carattere rappresentativo per diventare, col decisivo contributo del Regno Unito, una struttura puramente intergovernativa, si misurano non già nel Parlamento europeo, bensì in sede di Consiglio, soprattutto per quel che riguarda la politica economica.
Il vero meccanismo decisionale della UE, consiste perciò in un permanente braccio di ferro, in cui l’Italia – la cui rappresentanza ha una tradizione di debolezza, di discredito e di divisione al proprio interno – è sistematicamente perdente. A parte alcuni paesi, come la Spagna, che dal regime franchista ha ereditato uno struttura statuale accentrata e fortemente nazionalista, e che vende a caro prezzo il proprio voto in cambio di finanziamenti e di provvidenza speciali, ci saranno due paesi che avranno influenza prevalente nella UE post-Brexit: la Germania e la Francia.
Si tratta di due paesi fondatori, che hanno provato a lungo ad effettuare una vera riconciliazione e a creare un vero e proprio “asse” decisionale. E nel loro gioco di influenze, Londra si inseriva come alleato di circostanza del’una o dell’altra capitale, e anche come fattore di equilibrio. Senza gli Inglesi la dialettica cooperazione-concorrenza tra Francia e Germania diventa più rigida. L’Asse sarà più potente, la copertura francese agli interessi tedeschi più chiaramente indispensabile. E all’interno dell’Asse l’influenza di Parigi ne uscirà forse rafforzata.
Più difficile diventerà infatti, per la Germania esercitare il potere di veto in materia di linea economica. Come ha fatto notare “Le Monde”, secondo le regole di voto introdotte nel novembre 2014, perché nel Consiglio si formi una minoranza di blocco ci vogliono almeno quattro Stati membri, che rappresentino almeno il 35% della popolazione totale dell’UE.
Con l’Inghilterra fuori dall’UE, il blocco “neo-liberale” che consisteva di Regno Unito, Paesi Bassi e Repubblica Ceca, perde sostanzialmente di peso. E la Germania, che spesso si è unita a questo blocco per superare la soglia del 35% necessaria per un veto, avrà maggiori difficoltà nella sua strategia di esautorazione della UE a vantaggio dei governi dei paesi membri, e quindi di Berlino.
Nell’immediato però, l’Asse franco-tedesco ha seri problemi. Hollande è debolissimo e totalmente screditato in patria, mentre la Merkel, che dovrà andare alle elezioni l’anno prossimo, non può più contare sui suoi alleati socialisti, già entrati in campagna elettorale. E naviga a vista, senza nessuna linea politica, con sterzate e dietro-front continui. In queste condizioni, pilotare il “rEU”, composto di 27 paesi tutti alla ricerca di un modo per profittare della ritirata suonata da Londra, diventa, per l’Asse Berlino-Parigi, troppo difficile. Entrambe le capitali sembrano perciò tentate dall’idea di associare l’Italia alla loro impresa comune.
Lo si è visto immediatamente dopo il voto. Hollande, convinto come anche la Merkel che il Brexit non ci sarebbe stato, si era già invitato a Berlino per la settimana successiva. Ma la Merkel – convinta che ore, senza l’Inghilterra, ci sarà un periodo di assestamento, – ha inviato anche Renzi. Al che, la diplomazia francese si è subito precipitata a organizzare una cena tra Holland e il premier italiano. E’ nato così una sorta di “Direttorio” a tre. Il ruolo dell’Italia è stato insomma accresciuto già dal primo giorno del post-brexit.
Due giorni dopo il Brexit, il Corriere della Sera ha messo on line un’intervista di Sergio Romano in cui la linea del quotidiano viene contraddetta apertamente. L’Ambasciatore dice esplicitamente che l’Inghilterra è entrata nell’Europa “perché l’Europa non si facesse”. E che l’uscita di Londra è un fatto positivo perché adesso sarà possibile riprendere il progetto originario, cioè quello di un’Europa molto più unita e solidale.
Certo. E quello che anche io vorrei augurarmi. Però non si può pensare che il tempo sia passato invano, senza lasciare tracce. Londra è stata nella Comunità Europea, e poi nella UE, per 43 anni. Ed in questo non trascurabile lasso di tempo ha largamente realizzato il proprio progetto di rendere impossibile ogni unione approfondita, attraverso l’apertura ad un numero enorme di nuovi paesi che non avevano nulla in comune con i sei paesi fondatori, avendo vissuto esperienze storiche completamente diverse.
Bisogna essere realisti. E prendere atto del fatto che c’è, sul terreno dove andrebbe costruita l’Europa unita, un’ingombrante eredità della politica dell’allargamento selvaggio: allargamento voluto principalmente dalla signora Thatcher appunto perché diventasse impossibile ogni approfondimento dell’integrazione. Nelle istituzioni dell’Unione sono così profondamente inseriti paesi come la Spagna e il Portogallo, che non hanno – per loro fortuna – conosciuto l’esperienza delle due guerre mondiali e della disfatta. E soprattutto la cui storia, a partire dalla fine del Settecento, è una storia autonoma rispetto a quella dell’Europa occidentale, fortemente legata alla progressiva perdita degli imperi transoceanici. La loro storia, nel periodo contemporaneo, non è una storia come quella dell’Italia, le cui date fondamentali – 1797, 1815, 1820, 1830, 1848, 1870, 1914-18, 1945 – coincidono con quelle della grande storia europea. E che coincidono perché i fenomeni politici che scuotevano l’Italia erano gli stessi che scuotevano l’intera Europa. In altri termini, nell’unione Europea sono oggi presenti paesi il cui percorso plurisecolare non coincide con quello che ha portato i Sei paesi fondatori dell’Europa continentale alle storiche decisioni unitarie degli anni 50.
Per non parlare poi dei paesi scandinavi, da sempre ostili ad ogni forma di integrazione europea, e dei popoli – ammessi in blocco pochi anni fa – che avevano appartenuto all’impero sovietico, e solo di recente erano stati promossi alla forma di stati più o meno effettivamente indipendenti. Ma, che prima di allora si erano sempre trovati o sotto il dominio austro-tedesco, oppure sotto il dominio russo; popoli più che paesi, il cui comportamento in sede comunitaria è sempre stato tanto più rissoso ed orgoglioso, quanto più fragile ed esitante è la loro identità nazionale.
Il Brexit, insomma, lascia dietro di sé, un mare di rovine; in gran parte promosse o almeno favorite dalla politica europea di Londra. Lascia un’Unione Europea profondamente sfigurata rispetto a quella in cui l’Inghilterra entrò 43 anni fa. E in cui non sarà facile, anche se tutti i sei membri originari lo volessero – e non è detto che la nuova Germania unificata lo voglia ancora –, riprendere il progetto ed il sogno di allora.
Ma allora il sogno europeista è morto? Ed è stata vana la generosa idea di costruire – in un mondo in cui i popoli europei costituiscono una minoranza sistematicamente decrescente della popolazione totale – una nuova entità che superasse gli egoismi, le ambizioni egemoniche di questi popoli e che addirittura li affratellasse attorno ad un patrimonio ideale comune?
No. Non credo che il sogno sia morto. Ma quel che è certo e che è cambiata la realtà mondiale in cui il progetto fu inizialmente concepito e avviato. E sono piuttosto cambiati anche i popoli stessi e i loro leaders.
Per rendersene conto basta pensare innanzi tutto al fatto che i Sei paesi originari della Unione Europea, i sei paesi fondatori del Mercato Comune erano i tre paesi europei usciti sconfitti della seconda guerra mondiale, più alcuni paesi minori. Anche la Francia, malgrado il capolavoro politico-diplomatico di de Gaulle di farla contare tra i paesi vincitori, rientrava in questa categoria. Unendosi e presentandosi sulla scena internazionale con un nuovo volto, pacifico e collaborativo, questi paesi potevano recuperare molto del discredito in cui essi erano caduti, e in parte attenuare il dolore e il risentimento per ferite ancora molto recenti che essi si erano reciprocamente inferte.
Inoltre, il nucleo della nuova costruzione politica era ben equilibrato, perché i tre paesi principali – la Francia, l’Italia ed una Germania ampiamente mutilata – avevano dimensioni demografiche analoghe. Inoltre, erano tre paesi che, grazie all’iniziativa americana, si erano avviati a ricostruire le proprie strutture industriali non più in maniera autarchica e rivale, ma in maniera integrata e complementare. E mi lasci dire, en passant, che per questo l’Europa ha un gigantesco debito storico nei confronti degli Stati Uniti: un debito storico così grande che non potrà mai essere ripagato. Il dono che ci hanno fatto non sono stati infatti tanto gli aiuti del Piano Marshall, ma il fatto di averci imposto la condizione che, su come spenderli, i governi europei decidessero all’unanimità. Insomma, ci costrinsero a metterci d’accordo. Loro volevano che gli Europei non litigassero più, per poter meglio far fronte alla minaccia sovietica. Ma in quell’obbligo a metterci d’accordo è la radice che a portato al Mercato Comune, e ad uno spirito di riconciliazione che è durato almeno fino a quando, a partire dagli originari sei paesi fondatori, i paesi membri non hanno incominciato a moltiplicarsi.
Ma, soprattutto, i tre paesi fondatori erano in una fase politica particolarmente favorevole alla nascita dell’Europa unita. Perché erano tutti e tre governati da forze minoritarie rispetto alle più aspre tradizioni nazionalistiche che avevano storicamente dominato in ciascuno di essi.
Schuman, il Primo Ministro Francese era nato in Lussemburgo da un padre lorenese, e che si era trasferito al di là del confine quando, dopo il 1870, si era ritrovato ad essere suddito del Kaiser. E il figlio aveva lui stesso compiuto lo stesso breve tragitto in senso opposto nel 1919, dopo che la Lorena era ritornata francese. Schuman rappresentava cioè quella parte della Francia che aveva appartenuto alla Germania fino alla prima guerra mondiale, dove oggi non si applicano – per legge – alcuni dei principi dello Stato laico, e veniva da forze politiche cattoliche storicamente oppresse dall’estremismo nazional-giacobino della tradizione francese.
Al governo dell’Italia c’era De Gasperi, che nel ventennio precedente era stato un nemico dichiarato del fascismo e del suo aggressivo imperialismo: ma era anche estraneo agli ambienti massonici post-risorgimentali e nazionalisti dell’Italia pre-fascista, ed era stato addirittura deputato al Parlamento di Vienna in rappresentanza del Trentino austriaco.
Adenauer, infine, era espressione delle Renania cattolica, cioè di una tradizione contro la quale la Germania bismarckiana aveva aspramente combattuto una vera e propria guerra politico-culturale, il kulturkampf. E soprattutto rappresentava una Germania di cui non faceva più parte la Prussia, cioè il cuore stesso di quelle sue tradizioni militaristiche e imperialistiche che l’avevano trascinata in due tremende guerre, entrambe perdute, contro i suoi nuovi partners europei.
Dei tre uomini che hanno fondato l’Europa si è detto che essi avrebbero potuto incontrarsi senza interpreti e intendersi usando la stessa lingua: il Tedesco. E’ vero. Ma essi avevano in comune molto di più: non solo la matrice ideologica, quella cattolica, fortemente pacifista, ma soprattutto l’estraneità alle culture politiche che in ciascuno dei loro paesi avevano più fortemente nutrito il nazionalismo reciprocamente aggressivo.
Oggi, le cose sono profondamente cambiate. Ci sono – certo – le istituzioni, ed è perciò da quelle che bisognerà ripartire, rendendole più politiche e meno burocratiche, più efficienti e meno potenti, meno mastodontiche e meno eterogenee: ed in questo l’uscita della Gran Bretagna sarebbe un passo importante. Ma lo si dovrà fare con grande accortezza, tenendo ben presente che la favorevole congiuntura politica di allora non esiste più. La Germania è oggi guidata da un personale politico fortemente radicato nell’est del paese, dove sta già risorgendo il nazionalismo xenofobo, per non dir peggio. La Francia è in preda a un’ondata crescente di sentimenti anti-immigrati ed anti-europei. E l’Italia stessa sembra stia smarrendo l’entusiasmo con cui aveva sin dall’inizio guardato all’unificazione dell’Europa, vedendo in essa, mazzinianamente, una prosecuzione del Risorgimento e dell’unità dell’Italia.
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