Il Nord-Est tra “schei” e tradizione cristiana

Il Nord-Est tra “schei” e tradizione cristiana


Giuseppe Sacco



Durante l'occupazione austriaca dell'Italia di Nord-Est, su alcune monete da un pfenning era scritto "scheid.munz", abbreviazione di Scheidemünze (moneta divisionale).
Questi spiccioli erano popolarmente detti "schei".
Da qui l'espressione "averghe quatro schei": sentirsi ricco, ma in realtà essere rimasto sempre un pezzente, soprattutto nell'animo.

La Chiesa finora non ha mai rigettato il principio delle autonomie regionali ispirate al principio della sussidiarietà, … con l’autonomia differenziata però è diverso». Con queste parole, che non si prestano a equivoci e a interpretazioni, il Presidente della commissione CEI per le politiche sociali, Monsignor Filippo Santoro, è entrato senza timore – anzi fieramente – nella categoria dei “cialtroni”, come sono stati definiti da Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia, tutti coloro che si permettono di criticare il progetto leghista (e comunista) per l’Italia di Nord-Est.

Rompendo il complice silenzio in cui questo progetto è stato sinora portato avanti, Monsignor Santoro ha reso chiara la posizione della Chiesa su una questione assolutamente cruciale: il tentativo di alcune parti privilegiate della Nazione di appropriarsi a livello locale di poteri e competenze tali da mettere in sicurezza i loro “schei” a scapito del resto degli Italiani. Schei– sia ben chiaro – per i quali né gli abitanti, né i loro più recenti e rozzi rappresentanti politici, hanno alcun merito; o almeno non ne hanno più di quanto gli sceicchi dei finti staterelli arabi ne abbiano per la ricchezza petrolifera che giace sotto i loro deserti.

Una rendita di posizione, ma in posizione subordinata

La recente ricchezza del Nord-Est, dopo un’eternità di miseria e di pellagra,  non in è infatti altro che una rendita di posizione dovuta alla vicinanza geografica alla defunta “cortina di ferro”, cioè al confine economico tra Est ed Ovest dell’Europa, improvvisamente riaperto al commercio dopo più di mezzo secolo di chiusura. A cui ha fatto seguito, immediatamente dopo l’accettazione da parte delle regioni del Nord-Est di un ruolo di subordinazione produttiva rispetto alla Germania, il paese economicamente più aggressivo d’Europa.

Non a caso, questa rendita di posizione appare dopo il 1989, anno in cui su Bonn, e poi su Berlino, sono piovute per intero le spoglie della Terza guerra mondiale, mai guerreggiata, ma combattuta e vinta, contro l’impero sovietico, dall’Occidente nel suo complesso e non certo da intrepidi guerrieri del Carroccio guidati dal Trota.

E data la qualità umana e culturale dei rappresentanti del Nord-Est emersi “dalle brachene” a partire dagli anni 90 non può ovviamente sorprendere che essi, cosi casualmente beneficiati dall’evoluzione degli equilibri militari internazionali, non si diano il minimo pensiero di mettere a rischio, per il loro più sordido interesse, la stessa unità nazionale.

Ma c’è di più, e di più serio. Dal coraggioso intervento di questo  prelato assai autorevole, i Cattolici italiani hanno appreso qualcosa che sino a ieri essi sembravano ignorare. Hanno appreso che la loro presenza nell’acceso dibattito (e scontro) politico che scuote dalle fondamenta la Società italiana non può essere così limitata come è stata da un quarto di secolo a questa parte, e che ad essi non tocca solo la difesa di alcuni valori tradizionali nel campo della morale familiare, sessuale,  e della protezione della vita, oppure un impegno sociale prevalentemente – e stranamente – indirizzato all’accoglienza dei migranti.

Un progetto che spacca l’Italia

Pronunciandosi in maniera assai esplicita contro “un progetto che spacca l’Italia e rischia di svuotare la Capitale” Mons. Santoro ha dimostrato come, di fronte ai problemi concreti di una società nazionale, è solo attraverso la reciproca convergenza che eticità e sensibilità sociale si possono tradurre in posizioni politiche capaci di incidere e di portare risultati concreti.

L'Italia delle autonomie

Perciò, pur senza volerlo essere, l’intervento esplicito dell’alto prelato non può essere letto che come un implicito richiamo – un richiamo, certo, paterno, ma purtuttavia un richiamo – a quei Cattolici senza tonsura, a quei “laici cattolici” che, anziché scendere direttamente in campo, hanno sinora pensato di poter lasciare a improvvisate formazioni regionaliste e ai loro rozzi leaderstemi strettamente collegati al perseguimento del Bene Comune. Perché è di questo – del Bene Comune – che si tratta, nel momento in cui è in ballo l’eguaglianza di tutti gli Italiani di fronte alle autorità della Repubblica; nel momento in cui queste sono chiamate a garantire la loro educazione, il loro benessere, la loro salute, la loro sicurezza.

Purtroppo, in questa categoria rientrano quasi tutti i Cattolici, che possono essere considerati correi dalla distrazione manifestata, prima dell’intervento di Mons. Santoro, di fronte al tentativo delle Regioni a guida leghista – più l’ineffabile Emilia Romagna, a guida tradizionalmente “rossa” – di “scippare” quasi di nascosto un’autonomia assai prossima all’indipendenza, negoziando fuori dal controllo del Parlamento, in comitati pressoché segreti, per gentile concessione dall’ex-PremierGentiloni, preoccupato solo di “durare” il più a lungo possibile a Palazzo Chigi.

C’è però – per i Cattolici – qualcosa di più grave, in questa vicenda, più grave che non la lo loro distrazione ed indifferenza di fronte a questa seria minaccia che grava sul Bene Comune. C’è la necessità di prendere atto di un fenomeno storico-culturale di lungo periodo che interessa una delle regioni più tradizionalmente cattoliche d’Italia. Ed é la profonda trasformazione del Veneto, la cui popolazione sostiene oggi in maniera tanto maggioritaria quanto becera quello che è stato chiamato il “separatismo dei ricchi”. Una profonda trasformazione che oggi impegna, come e più che nelle altre regioni le forze oggi sparse dei Cattolici a “mettersi insieme”, per recuperare la parte più pregiata della tradizione culturale e spirituale di questa parte d’Italia.

Il Veneto post-cristiano

Niente, infatti, sembra oggi sopravvivere del veneto cattolico, povero ma devoto. Niente del Veneto cattolico che obbedì lungamente e massicciamente al non expedite che poi, durante il cinquantennio postbellico, votò in grande maggioranza e con grande entusiasmo per la Democrazia Cristiana. Niente del Veneto povero, tanto povero che parte di esso fu incluso nell’area di azione della “Cassa per il Mezzogiorno e delle Regioni arretrate del Centro-Nord”; del Veneto disastrato ed amato, verso il quale, dopo la rotta del Po nel 1951, si rivolse – oltre ad un enorme aiuto dello Stato italiano – una straordinaria ondata di generosità da tutte le Regioni della Penisola.

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“Battesimo” leghista con le acque del “Dio Po”

Ancor meno resta – ridicolizzando le squallide nostalgie asburgiche che qualcuno, oltre i nostri confini, cerca ancora di rievocare – del vecchio Veneto politicamente “austriacante”, che Vienna fu costretta a lasciare all’Italia, e che era la regione più arretrata e depressa dell’Impero, peggio della quale c’era solo la Bucovina descritta in pagine indimenticabili da Gregor von Rezzori. E di quel Veneto “austriacante” non resta niente perché su quelle terre tanto a lungo oppresse, è stata proprio l’Italia a fare esplodere due fenomeni rivoluzionari, il benessere e la libertà, mai prima conosciuti.

Così, al posto di quel vecchio Veneto ce n’è oggi uno nuovo, che adora più gli “schei” che il suo Dio, e che atteggia nei confronti dell’Italia un atteggiamento non solo di totale ingratitudine, ma addirittura di differenza e di superiorità.

Non a caso l’anno di svolta, politica e morale, può essere facilmente individuato nel 1991. Di svolta politica perché è l’anno in cui la Liga Veneta lascia il passo alla Lega Nord. Ma anche di tragica svolta morale, perché il 1991 fu anche l’anno in cui – sotto gli occhi sconvolti di tutta l’opinione pubblica italiana – si venne a sapere di  un ex-chierichetto, Pietro Maso, che nel Veneto più profondo, a Montecchia di Crosara, in Provincia di Verona, per avere più “schei” da spendere in discoteca, in compagni di alcuni amici, ammazzò sia il padre che la madre, membri di un gruppo neocatecumenale, colpiti dapprima con un tubo di ferro e poi finiti soffocandoli con un piede sulla gola, in un’agonia durata più di 50 minuti. E le sorelle si salvarono solo perché il primo (dei quattro) tentativi di massacrare l’intera famiglia facendo saltare la casa con un’esplosione di gas non era andato in porto.

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Il Veneto, in passato noto per l’enorme diffusione dell’alcolismo, è oggi unadelle regioni più colpita dal fenomeno della dipendenza giovanile da droghe pesanti

Quella orribile vicenda fu vista dall’opinione pubblica italiana come il segno che un nuovo Veneto era nato. Tanto più che altri episodi andavano nella stessa direzione: tre anni dopo, il caso Stevanin, un serial killer che aveva ucciso sei donne e ne aveva occultato i cadaveri (forse con l’aiuto dela madre) e in un clima di sospetta omertà degli abitanti del Comune di Terrazzo. E poi, la spaventosa diffusione della droga, la vicenda della mafia del Brenta, il crack delle banche venete, e il caso Zonin, ecc, ecc. Infine, il sovversivismo – non meno disgustoso in quanto buffonesco – dei leghisti che sbarcarono in piazza San Marco con un ridicolo carrarmato. Con gli anni ’90, era insomma venuto alla luce un Veneto che con cui l’Italia non aveva quasi più niente in comune. Ma che al tempo stesso poneva, e pone tuttora, a noi tutti un alto e nobile obiettivo: quello della sua ricristianizzazione

 

 

 

 

 

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