La crisi dell’Europa, e i Cattolici
La crisi in atto della costruzione europea non poteva lasciare indiffrenti i Cattolici Iialiani, la cui presenza politica in Italia da segni di ripresa.
Riproduciamo qui un'intervista apparsa su "Convergenza Cristiana", in cui si intravedono i segni di un approccio un po' diverso rispetto a quello del passato
Giancarlo Infante – Come mai gli italiani, che un tempo erano acriticamente filoeuropei, sono diventati euro critici?
Giuseppe Sacco – Sarebbe facile rispondere a questa domanda sottolineando che sono diventati euro scettici proprio perché in precedenza il loro europeismo era quasi del tutto acritico. Del resto, è proprio questa l’idea alla base della spiegazione corrente della loro attuale disaffezione; la spiegazione che mette in rilievo come gli altri paesi membri abbiano approfittato proprio del fatto che gli italiani fossero acriticamente pro-Europa, che volessero sempre più Europa, e che per ogni problema volessero una soluzione a livello comunitario. E ne abbiano approfittato per fare i loro interessi sistematicamente a danno dell’Italia, fino a quando hanno passato il segno, e hanno provocato una reazione di rigetto.
In realtà, si può dire di più. Gli italiani erano acriticamente europeisti perché lo erano sinceramente ed entusiasticamente. E non è un caso che sia stata proprio l’Italia, con l’iniziativa di Salvini a proposito della nave Aquarius, a far saltare la maschera di ipocrisia che da molti anni copriva il fallimento del progetto europeo.
Proprio perché ne erano entusiasti, gli italiani, a un certo punto, non hanno più potuto tollerare la menzogna cui tutti gli altri, che forse non ci avevano mai creduto, si accomodavano facilmente.
Giancarlo Infante – Ma che cosa derivava quell’entusiasmo?
Giuseppe Sacco – All’indomani della guerra, l’Italia ha risposto con entusiasmo al progetto che prevedeva un superamento delle identità nazionali a favore di una identità europea perché ciò era nelle sue corde, molto più che in quelle di qualsiasi altra nazione nel continente. Del resto già nel Risorgimento questa aspirazione si era manifestata con la “Giovine Europa” di Mazzini. E poi, perché la breve esperienza dello Stato nazione, in Italia, aveva portato poca gloria e molto dolore. Con le due guerre mondiali, gli Italiani avevano potuto misurare a pieno gli orrori e le conseguenze negative cui può portare il nazionalismo.
Inoltre, le due principali forze politiche che dominavano in Italia nel dopoguerra, i comunisti e i cattolici, erano contrarie non solo al nazionalismo, ma in una certa misura all’idea stessa di Nazione.
In primo luogo, c’è il fatto che il cattolicesimo è una religione universale, molto diversa da altre religioni cristiane, come quella ortodossa, che nei secoli si è piegata alla risibile idea che possa esistere un cristianesimo greco per i greci, un cristianesimo russo per i russi, un cristianesimo georgiano per i georgiani. Per non parlare nel settarismo protestante, che per mezzo millennio ha partorito particolarismi eternamente impegnati gli uni contro gli altri in guerre ferocissime.
I Comunisti, dal canto loro, sempre stati internazionalisti. Per di più, quando dopo la Seconda guerra mondiale il “socialismo effettivamente realizzato” era venuto a coincidere con il blocco sovietico, erano diventati consapevoli che il patriottismo dei vari popoli era diventato un ostacolo all’avvento di un nuovo sistema sociale. E si erano impegnati con tutta la loro, assai significativa, capacità di “egemonia culturale”, con tutto il loro soft power, a bollare come “fascista” qualsiasi sentimento oespressione di patriottismo. Il che era, peraltro, reso più facile dall’orgia di retorica patriottica con cui il Fascismo aveva tentato di assicurarsi il consenso degli Italiani, ottenendo talora persino reazioni di rigetto.
Giancarlo Infante – Insomma gli Italiani erano europeisti per ragioni ideologiche? E potevano esserlo tanto più facilmente in quanto, a differenza degli altri paesi europei, le ideologie uscite dominanti dalla seconda guerra mondiale erano di fatto anti-nazionali?
Giuseppe Sacco – C’era dell’altro, naturalmente. Così come in Germania c’era il peso della sconfitta. L’Italia era un paese andato in pezzi nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale. E duramente sconfitta era anche la Germania, pur avendo combattuto fino all’ultimo uomo con osceno fanatismo. C’era poi il caso della Francia, che cercava di recuperare dietro il coraggio, la capacità di rischiare e l’abilità diplomatica di De Gaulle il fatto di essere stata sbaragliata in pochi giorni. A questi tre paesi, e ai loro vecchi dirigenti mal riciclati in funzione antisovietica, come in Germania e in Italia, oppure appena rinnovati, come in Francia dopo l’allontanamento di De Gaulle dal potere nel 1946, potersi ripresentare in giro per il mondo con un nuovo biglietto da visita, quello dell’Europa, dava delle possibilità e delle aperture che non ci sarebbero state presentandosi col biglietto da visita dell’Italia, della Germania e della Francia.
Insomma, gli italiani fecero una scelta europea anche un po’ per convenienza, perché sembrava più favorevole che non rifare la scelta italiana la quale aveva portato alla terribile perdita di uomini della Prima guerra mondiale e, poi, alla drammatica sconfitta nella Seconda. L’Europa, insomma, era all’inizio una coalizione di paesi sconfitti che cercavano non solo di superare le cause della loro ostilità, ma anche di presentarsi al mondo con un volto e abito nuovo.
In ciò – e questo bisogna riconoscerlo – essifurono spinti molto fortemente e sostenuti dagli Americani, e in particolare dal Segretario di Stato, Generale George Marshall, che riteneva il rilancio dell’industria e la riorganizzazione dell’esercito tedesco indispensabili per fronteggiare un eventuale attacco sovietico. Ma non tutti in America erano della stessa opinione. Anzi per molti la Nazione tedesca era da punire, e persino da distruggere. E tra qusìesti c’era il potente Ministro della Finanze di Roosevelt, Hans Morgenthau.
Giancarlo Infante – Non c’è in questa scelta anche un afflato politico nuovo, sulla scia del pensiero dei “padri” dell’Europa?
Giuseppe Sacco – Certamente! Bisogna dire che il pensiero dei padri dell’Europa da te giustamente ricordati, costituiva davvero un patrimonio molto forte. Altrimenti, il progetto europeista, che aveva nemici potenti, come il già citato Morgenthau, non sarebbe durato così a lungo e non avrebbe portato i non pochi risultati positivi che, invece, ha prodotto.
Val la pena di ricordare, a questo proposito, che i “padri” cui hai fatto cenno, De Gasperi, Adenauer e Schuman, erano tutti e tre degli uomini politici cattolici, e rappresentavano forze storicamente minoritarie nei rispettivi paesi. I Padri Fondatori dell’Europa erano quindi particolarmente interessati ad un pieno sviluppo della democrazia e ad un controllo delle tendenze egemoniche e sopraffattrici che esistevano in ciascuno dei tre paesi: quella liberal massonica in Italia, quella giacobina e radicale in Francia, quella militarista e imperialista in Germania.
La sopranazionalità delle strutture europee, e il trasferimento verso di esse di un certo numero di poteri di indirizzo, controllo e garanzia, era quindi anche una forma di contro-assicurazione per tutti i paesi partecipanti contro il riemergere in ciascuno di essi di quelle forze prettamente “nazionali” tendenzialmente estremiste che avevano per ben due volte in mezzo secolo portato l’Europa alla catastrofe.
L’Europa unita aveva, insomma, grazie ai “padri” fondatori, un forte patrimonio etico-politico. Ed è questo che ha consentito di resistere tanto a lungo nonostante le spinte ad essa contrarie nella politica mondiale.
Giancarlo Infante – Quando finisce questo processo europeo?
Giuseppe Sacco – Si interrompe abbastanza rapidamente. Se bisogna arrivare a metà Luglio 2018 per sentire un alto responsabile politico americano, addirittura il Presidente degli Stati Uniti, affermare apertis verbis che l’Europa è un nemico nel suo paese, almeno sotto gli aspetti commerciali, un vero e proprio scontro si verifica già nel 1963, quando alla Casa Bianca c’è ancora John Fitzgerald Kennedy, che pure rappresenta una straordinaria eccezione nella storia politica degli Stati Uniti. Persino il Generale de Gaulle, che sempre stato un “europessimista” (chl è cosa diversa da un “euroscettico”), ammise pubblicamente che il progetto europeo avrebbe forse potuto realizzarsi davvero “pendant le court passage du Président Kennedy à la Maison Blance”.
Pri oprio ai tempi di Kennedy risale però la cosiddetta “Chicken War”, une duro scontro tra l’America e i principali membri della CEE, in particolare la Germania la Francia. Preoccupati non solo del fatto che la carne di pollo importata dall’America occupasse il 23% del mercato europeo, ma che essa – come tutta la carne venduta ai consumatori americani – contenesse anche ormoni femminili propinati ai volatili per farli crescere più rapidamente, la CEE aveva imposto un dazio doganale del 25% all’importazione di questo specifico prodotto. E per rappresaglia gli Stati Uniti avevano colpito con un dazio dello stesso ammontare alcuni prodotti di vari paesi europei, tra cui il cognac e gli alcolici simili, i camioncini leggeri, e talune sostanze chimiche utilizzate nell’industria alimentare.
Ne nacque un conflitto senza fine, e numerosi divieti di importazione che sono ancora in vigore, tanto che la lite che si è poi trascinata per quasi cinquant’anni, e che gli Americani hanno cercato ancora recentemente di aggirare attraverso la proposta del TTIP (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) e con il CETA, un analogo accordo tra Europa e Canada.
E non si trattò solo di una lite al solo campo commerciale. Essa giunse anzi a coinvolgere importanti esponenti politici dei due paesi. Nel giugno del 1963, J. William Fulbright, presidente del comitato per le relazioni estere del Senato (che però era senatore democratico dell’Arkansas, uno dei principali produttori di pollame negli Stati Uniti), interruppe un dibattito sulle armi nucleari per denunciare sanzioni economiche sul pollo americano, arrivando addirittura a minacciare di ritirare dall’Europa le truppe americane della NATO.
Konrad Adenauer, allora cancelliere tedesco, in seguito avrebbe detto che nella corrispondenza scambiata tra lui e Kennedy sul blocco di Berlino, la guerra in Indocina, lo sbarco degli anticastristi alla Baia dei porci metà delle nostre discussioni riguardava il pollo.
Giancarlo Infante – Sono dunque queste controversie commerciali, questo scntro tra reciproci protezionismi, che sono all’origine della progressiva perdita di credibilità e fattibilità del progetto europeo?
Giuseppe Sacco – Solo fino a un certo punto. Già negli anni immediatamente successivi alla firma dei trattati europei autorità americane hanno cominciato a essere spaventate del grande successo dell’economia europee una volta inquadrate nel mercato comune. Gli Stati Uniti hanno quindi avviato delle politiche finalizzate a svuotare di significato i progressi realizzati in ambito comunitario.
Sin dagli anni di Johnson, e – come abbiamo visto – con qualche precedente addirittura durante la presidenza di Kennedy, queste politiche hanno preso forma con i successivi rounds negoziali del GATT, l’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio. Questa strana istituzione, figlia di un Trattato – la Carta dell’Avana – mai ratificato dagli Stati Uniti, e quindi di un Trattato fallito, organizzerà periodicamente delle riunioni per liberalizzare il commercio internazionale nei campi in cui la CEE aveva appena liberalizzato il proprio commercio interno. In altri termini, in nome del libero commercio, si svuotava di significato ogni progresso europeo, perché i benefici reciproci di cui erano venuti a godere i soci del club europeo, venivano estesi anche ai non soci, togliendo così ogni significato all’appartenenza al club stesso.
Sono, tutti questi, alcuni dei passi che condurranno più tardi a quel fenomeno che è stato chiamato “globalizzazione”. E così, lo stesso organismo comunitario, nato con una ideologia ed una strumentazione che gli avrebbero consentito di costituire una struttura di protezione per i paesi membri di fronte al dilagare dei fenomeni negativi nel mondo globale, è diventato invece uno strumento per facilitare le liberalizzazioni – commerciali e regolamentari – che più favoriscono l’economia e le imprese globali.
Giancarlo Infante – E come mai la comunità europea non è riuscita a resistere e a reagire contro questi tentativi americani?
Giuseppe Sacco – Perché essa è stata oggetto anche in attacco condotto da parte di un quinta colonna, l’Inghilterra. Infatti, l’altro paese che era uscito vittorioso, ma terribilmente provato dalla seconda guerra mondiale, non aveva mai ammesso di essere stato, in realtà, sconfitto. Lo sforzo di guerra era costato l’Impero, ma la casta dirigente britannica cercò di mascherare questa perdita come se fosse stato un atto di liberalità dovuto ai Laburisti giunti al potere dopo la guerra, come se gli Inglesi avessero fatto un dono ai paesi che essi avevano colonizzato. In realtà, vi erano stati costretti da Washington, che temeva che i popoli colonizzati, pur di liberarsi dai colonizzatori, si sarebbero gettati in braccio a Stalin.
Con la pretesa di essere usciti vincitori dalla guerra, gli Inglesi riuscirono però ad ingannare solo se stessi, e ciò li indusse a rifiutare sdegnosamente di partecipare alla coalizione dei paesi sconfitti che si formava in Europa continentale.
Gli inglesi si accorsero ben presto di questo errore, quando videro che – mentre loro stavano ancora con le tessere alimentari, col razionamento dei beni di prima necessità, perché impegolati in guerre coloniali in Malesia, in Kenya, e ancora nel 1956 a Suez , e dedicavano il meglio delle loro risorse a darsi gli strumenti militari necessari per mantenere la fictio di essere ancore una potenza mondiale – l’Italia già nel 1950 era nel pieno della ricostruzione e poi di un boom che continua sino al 1963. Inoltre, qualche anno dopo, videro che la Germania veniva trasformata dagli Americani, per combattere i Russi, da paese sconfitto in un paese alleato e nella prima potenza militare non-nucleare del continente. Gli inglesi, allora, cominciarono a considerare la collaborazione tra i sei paesi originari del’Europa unita come una minaccia mortale.
Giancarlo Infante – E perché mai? Il riarmo della Germania e dell’Italia, e la formazione della Nato erano diretti contro la Russia, non contro l’Inghilterra ….
Giuseppe Sacco – Perché esiste una regola geopolitica di cui gli inglesi sono sempre stati convinti. Una regola secondo la quale se, sulla sponda orientale, sul lato continentale della Manica, si stabilisse una grande potenza il Regno Unito perderebbe tutti i vantaggi della condizione insulare, tutto il vantaggio strategico di essere un’isola. Questo è peraltro il motivo per cui, sull’altra sponda della Manica esiste un assurdo stato, la cui popolazione parla per metà francese e per metà olandese, il Belgio, tanto più impotente in quanto sempre impegolato nelle sue diatribe tribali, e che non può costituire nessuna minaccia.
Gli inglesi, nella loro storia, sono sempre stati contrari ad ogni grande potenza che potesse dominare l’altra sponda della Manica. Sono stati contro i Francesi ed alleati con l’Impero austriaco per sconfiggere la rivoluzione e Napoleone, perché ciò minacciava di creare, appunto, una grande potenza immediatamente di fronte alle loro coste. Successivamente, dopo il 1870, cioè dopo la riunificazione della Germania, gli inglesi divennero alleati della Francia in funzione antitedesca perché temevano che la potenza del Kaiser venisse a creare una minaccia al di là della Manica.
E’ per questo che la Comunità Europea, non appena cessò di essere un’unione di Stati disfatti dalla sconfitta venne immediatamente percepita come un pericolo. Fu allora che gli Inglesi tentarono di creare una contro-CEE, che si chiamava “Associazione europea di libero scambio”, ma quando si accorsero che il confronto era impari e che questa “EFTA” non avrebbe mai potuto essere un contraltare alla Comunità europea, decisero di chiedere l’ammissione alla , Comunità europea nell’intento – che non poteva fuggire a nessuno – di sabotarla dall’interno.
Giancarlo Infante – Ma gli altri europei furono d’accordo…
Giuseppe Sacco – E’ famoso il discorso di De Gaulle in cui egli disse che l’Inghilterra è un’isola. Il che naturalmente era un’ovvietà, che però fu sufficiente per sbarrare provvisoriamente la strada. Ma a partire dal momento in cui De Gaulle esce di scena, nel 1969, e viene sostituito da un dipendente della banca Rothschild l’Inghilterra gradualmente riesce a inserirsi nella Comunità e trascina con sé alcuni paesi con cui ha fortissimi rapporti commerciali, in particolare la Danimarca e l’Irlanda. Si passa così alla Comunità a nove, ma la pressione inglese continua ad esercitarsi per allargare sempre di più la Comunità, in modo che l’allargamento renda impossibile l’approfondimento.
Questo processo è durato 43 anni, alla fine dei quali la Comunità europea – tanto più pomposamente chiamata Unione in quanto era ormai diventata non più unificabile – aveva 28 membri, ed era così enormemente diversa al suo interno e così caotica che ogni possibile unità di intenti era scomparsa. A quel punto, la missione britannica a Bruxelles era computa, E si poteva fare l’ulteriore e definitivo passo destinato a danneggiare l’idea stessa di una Europa unita. Era cioè possibile uscire sbattendo la porta. Era arrivata l’ora del Brexit.
Giancarlo Infante – Responsabili della crisi attuale dell’Europa sono dunque gli Inglesi? E la loro principale colpa è quella di aver favorito un allargamento incontrollato del numero dei paesi membri?
Giuseppe Sacco – Non c’è dubbio che, per quello che riguarda l’allargamento della UE a moltissimi altri paesi, ci sia una responsabilità dell’Inghilterra. La signora Thatcher giunse a teorizzare in maniera quasi esplicita la strategia di “mettere molta acqua nel vino” dell’Europa promuovendo l’ingresso di paesi molto diversi da quelli fondatori. Ma l’ingresso dell’Inghilterra coincide anche con un altro fenomeno, che andava in senso fortemente contrario alla strada fino ad allora seguita dalla CEE: il fenomeno dell’estremismo libero scambista.
Se si guarda alle origini della CEE, è facile vedere l’importanza che al libero scambio veniva attribuita gli stessi padri fondatori. Non a caso, una delle prime istituzioni che venne realizzata è stata il MEC, il Mercato comune europeo. Ed è indubbio che tutti i sei paesi membri ne abbiano tratto grande beneficio. Ma il libero scambio non era, per i “padri” fondatori una fede assoluta, né la terapia di tutti mali, come poi si cercherà di far credere nei decenni successivi. L’ ampio mercato “interno” europeo costituito dall’unione dei mercati dei sei paesi, prevedeva infatti una tariffa esterna comune, cioè una protezione doganale rispetto al resto del mondo, rispetto ai paesi che del Mercato Comune non facevano parte. In altri termini, i padri fondatori erano convinti che in qualche misura il protezionismo, che negli anni successivi è stato invece considerato il male assoluto, potesse almeno nelle condizioni di allora portare dei benefici.
Giancarlo Infante – L’ingresso dell’Inghilterra sconvolge dunque il modo di pensare della CEE da un punto di vista ideologico? E’ il libero-scambismo la ragione della crisi dell’Europa?
Giuseppe Sacco – E’ un’evidenza innegabile che il fondamentalismo liberoscambista in auge dall’inizio del nuovo secolo sia all’origine della dissoluzione di fatto della costruzione europea. Ma questo non significa entrare nella disputa in atto tra fanatismi ideoligici opposti. Perché troppo spesso si dimentica che l’Europa ha con gli Stati Uniti, proprio per aver imposto un approccio liberoscambista alla ricostruzione del continente, un debito di gratitudine che non potrà mai ripagare.
I rooseveltiani che, da Washington, vollero e sostennero la ricostruzione dell’Europa erano infatti convinti che non ci sarebbe mai stata pace nel Vecchio Continente se la Francia e la Germania fossero tornate alle politiche di nazionalismo economico dell’anteguerra, e alla gara a chi era più forte nei settori strategici, che allora erano quelli legati alla siderurgia. Era questo, la rivalità in campo miitar-industriale tra Germania e Francia, un circolo vizioso che a due riprese a veva portato alle politiche autarchiche e alla guerra. Anche perché al circolo vizioso della rivalità di potenza tra Parigi e Berlino si erano aggiunti fenomeni interni, rivelatesi poi fatali. In ciascuno dei due paesi, i grandi industriali delle armi e dell’acciaio finanziavano infatti i partiti nazionalisti e militaristi per vendere più armi, e questi – una volta al potere – li ricompensavano con politiche militariste e di corsa agli armamenti.
Per porre termine a questa logica infernale – che alla fine avevano trascinato anche l’America nella tragedia delle due “guerre civili europee” – gli Americani imposero che l’utilizzo dei fondi ERP, quelli del Piano Marshall, venisse deciso all’unanimità dai governi europei, riuniti in una organizzazione di cooperazione economica, l’OECE. Cosicché, per esempio, perche l’Italia potesse spendere un dollaro per ricostruire il porto di Genova, doveva avere l’accordo francese, che mai sarebbe venuto visto che Parigi considera Genova un rivale di Marsiglia. Analogamente, la Francia non poteva attribuire un dollaro a ricostruire Le Havre se non con l’accordo dei Belgi, che invece volevano dare priorità ad Anversa. Senza mai intervenire a favore di uno o dell’altro contendente, in questo e in ogni altro settore economico, gli Americani riuscirono così ad imporre che gli Europei smettessero di litigare su ogni cosa. La questione Genova-Marsiglia,per esempio, fu risolta dando fondi ERP ai Francesi per l’espansione del porto petroli, e agli italiani per un porto specializzato in merci secche.
E fu così che le economie dei sei paesi che avrebbero poi formato il Mercato Comune furono ricostruite sulla base della complementarità anziche dell’autosufficienza nazionale. Il segreto del grandissimo boom di questi sei paesi s partire dal 1958 sta proprio nell’integrazione economica, nell’adozione del liberoscambia all’interno del blocco da essi costituito.
Giancarlo Infante – Ma solo all’interno di questo blocco? E inei confronti del resto del mondo?
Giuseppe Sacco . Certo! All’interno del blocco dei Sei! Verso l’esterno vigeva invece – con la Tariffa Esterna Comune – una politica di protezione, anche se moderata.
Bisogna infatti rendersi contoc del fatto che l’Europa nasce in un momento in cui la teosofia libero scambista è assai poco popolare. E già prima ancora la nascita del Mercato Comune, quasi nella preistoria dell’unità europea, era stata realizzata la Comunità Europea del Carbone dell’Acciaio, la CECA, un’autorità a livello sovranazionale finalizzata a pianificare la ristrutturazione e poi il funzionamento di due settori che erano stati di decisiva importanza economica e strategica in tutto il secolo precedente. E in questi due settori, anche per evitare future rivalità, l’Europa dei padri si era affidata non già alla concorrenza e al libero mercato, bensì alla pianificazione.
Se poi si guarda ad altri settori, divenuti nel frattempo ancor più importanti di quelli del carbone dell’acciaio, si può notare che in una fase più avanzata dell’integrazione europea, dopo la crisi del petrolio del 1956, l’ Europa penserà di rendersi autosufficiente in campo energetico, con la creazione dell’Euratom. E questa ambizione così patentemente anti-libero scambista, si spinse tanto avanti, da far fare prima la scelta a favore delle centrali ad uranio naturale, e poi al progetto Super Phoenix, entrambi figli di una mentalità non solo protezionista, ma prettamente autarchica.
Insomma: pianificazione centralizzata, protezione doganale, autosufficienza… Tutto il contrario del pensiero pressoché unico oggi prevalente, di quel che è andato di moda a partire dagli anni ottanta! … Senza entrare qui nell’antico e secolare dibattito tra mercantilisti e libero-scambisti, e ancor meno prendendo partito a favore del protezionismo, quanto ricordato sembra sufficiente a sottolineare quanto grave sia stato, per il disegno europeo, l’impatto con l’ultraliberismo. Se si tiene conto del fatto che parliamo di vicende svoltesi più di sessant’anni fa, in un clima culturale assai diverso, quando tre paesi atrocemente distrutti cercavano di collaborare per risollevarsi, luso a questi strumenti di politica economica era più che comprensibile L’Europa delle origini era certamente assai lontana ideologicamente, dalle teorie propalate dal nuovo arrivato, l’Inghilterra, e dal suo tradizionale alleato, gli Stati Uniti d’America.
Giancarlo Infante – Ma, in questo contesto, quando è che gli italiani mutano il loro atteggiamento, e perché?
Giuseppe Sacco – Che l’Europa unita non sia più realizzabile, gli italiani lo capiscono subito dopo la riunificazione tedesca. Ma è solo dopo la nascita dell’euro che essi diventano francamente ostili a tutto ciò che fa e propone l’Europa, diventato la creatura assai diversa da quella in cui essi avevano sperato e riposto fiducia.
Tanto per cominciare, essi vedono che è saltato il vecchio equilibrio demografico, in cui ciascuno dei tre paesi principali aveva circa 60 milioni di abitanti. Per di più, mentre la Germania occidentale che aveva aderito alla CEE era un paese a maggioranza cattolica, come l’Italia e la Francia, la nuova Germania riunificata è ormai a maggioranza protestante. E questo non è politicamente irrilevante, se si pensa che, mentre la Chiesa Cattolica aveva mantenuto durante tutto il periodo della divisione della Germania un’unica Conferenza Episcopale, la Chiesa Evangelica Tedesca aveva creato una conferenza episcopale della Germania Est, il più grande successo diplomatico mai ottenuto dal regime di Pankow in tutto il corso della Guerra Fredda.
Da un punto di vista culturale, i territori dell’Est, in pratica, sono poco più che la vecchia Prussia autoritaria e militarista, che aveva ingaggiato contro i Cattolici il cosiddetto Kulturkampf, una vera e propria guerra culturale. E la parte orientale della Germania, a differenza della Germania ovest, non era stata “rieducata” dagli Americani, né – passando direttamente dal Nazismo al Comuninismo – aveva mai conosciuto, non si dice la democrazia, ma neanche l’ombra di un regime appena tollerante. Il che spiega anche perché sia nell’ex-Germania est che sono più forti sia l’estrema sinistra che l’estrema destra. Insomma, la germania non è più quella con cui si era fatto l’accorso negli anni ’50.
Soprattutto è venuta meno la principale caratteristica comune, quella di essere tre paesi sconfitti. Con il crollo dell’Unione Sovietica, tutto il bottino della mai combattuta – ma vinta dall’Occidente – Terza Guerra Mondiale finisce infatti, per ragioni che sarebbe troppo lungo, ed anche politicamente scorretto, enumerare, nelle mani della Germania. Ed è un bottino così immenso che, per porvi un limite, bisognerà eliminare politicamente, o addirittura fisicamente, quelle personalità tedesche che pensavano di poterlo raccogliere per intero, bisognerà favorire l’ascesa al potere di una prudente deutsche Mutter, la Signora Merkel, ed infine creare una guerra artificiale in Ucraina.
Naturalmente, a screditare la UE c’era stata la questione dell’euro, in cui l’Italia entrò con un processo assolutamente caotico, e subendo un danno altissimo
Giancarlo Infante – Però l’Europa oggi non è in crisi per la situazione che esiste sul suo confine orientale! Nessun esercito minaccia l’Europa. L’Europa è in crisi per via dell’euro e degli immigrati…
Giuseppe Sacco – Giustissimo! Ma la trasformazione della Germania nella potenza che si è impadronita di tutte le spoglie dei vinti nella Terza guerra mondiale, ha talmente sbilanciato l’Unione da tramutarla in un guscio vuoto, all’interno del quale ciascuno ha per anni cercato di arraffare quello che poteva in una logica di “prendi i soldi e scappa”. Lo testimoniano non solo il caso della Spagna, ma soprattutto quello della Polonia i cui leaders, come dicono i Cinesi chi xi mang dong, mangia ad Ovest e sogna ad Est.
La UE, in questo momento forse fatidico, non sembra ormai più altro che una costruzione sopravvissuta a se stessa, e promana quell’odore umidiccio, muffoso, che Stefan Zweig trovava caratteristico degli uffici pubblici dell’agonizzante impero austriaco, quella sottile puzza che gli Austriaci chiamavano “odore erariale”. L’UE sembra ormai na costruzione che una sfida particolarmente dura, uno shock esogeno, può far crollare da un momento all’altro: una sfida esterna come una crisi finanziaria che travolga l’Euro, o una invasione migratoria come quella in atto.
Non so se ci sia stata una scelta intenzionale o meno. Tendo anzi a propendere per il no. Ma è certo che in una crisi innescata dalla questione migratoria, e nella sfida a braccio di ferro di tutti contro tutti che inevitabilmente ne seguirà, l’Italia è in posizione migliore di quanto non sarebbe in una crisi europea dovuta agli effetti distorsivi provocati dalla moneta unica. Ed è per questo che mi sembra necessario che Roma tenga duro sulla linea di difesa tracciata da Minniti, e portata sul proscenio internazionale dal suo successore.
Giancarlo Infante – Lei condivide dunque la linea di Salvini?
Giuseppe Sacco – Condivido soprattutto la linea di Minniti reativamente al controllo delle frontiere marittime, che Salvini ha parzialmente proseguito, anche con più energia, grazie al fatto che, oltre che Ministro dell’Interno, è leader di uno dei due partiti di govermo, e Vice-Presidente del Consiglio.
Salvini si pone però anche atri obiettivii che non condivido, e che mi paiono contraddittorie. Non condivido, per esempio, quello che questa maggioranza di governo propone in tema di legittima difesa. Non è armando le persone oneste che ci si può difendere dai criminali, perché in uno scontro il criminale fa freddamente il suo mestiere, e la vittima, che in materia di armi è inevitabilmente un dilettante, non solo ha quasi sempre la peggio ma, impugnando un’arma che non sa usare, finisce per indurre il criminale a usare la sua.
Condivido ciò che ha scritto il Cardinal Bassetti: “Non si può pensare di risolvere i flussi migratori riducendoli a una mera questione di polizia”. Ma non c’é dubbio che ci sia un aspetto di ordine pubblico, senza la cui prioritaria soluzione non si può organizzare neache una politica di accoglienza. Ed infatti l’accoglienza è finita in mano a gang politico-criminali come quella di Roma capitale.
D’altra parte, se non c’é dubbio che la tragedia demografica che l’Italia vive a partire dalla metà degli anni 60, non può essere risolta senza una politica dell’accoglienza, non è neanche possibile accogliere illimitatamente e casaccio. Lo stesso Pontefice ha detto che non bisogna accogliere più di quanti si possa responsabilmente integrare. E sono in totale disaccordo con tutte le forze politiche che hanno lasciato scadere la legislatura precedente senza far passare la legge sullo jus soli, che avrebbe concesso la cittadinanza italiana a coloro che sono nati e sono stati educati in Italia, anche se da genitori stranieri. Farlo, sarebbe nel nostro interesse di Italiani. E non solo nostro dovere se non vogliamo bestemmiare quando osiamo definirci Cristiani
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